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ome r uom fa eh' alti proposti intende, 11 giovane abbracciò. L' aura notturna Già le membra pungeva : all' orizzonte Chinata era la luna. Al fedel braccio Di Maria s' appoggiò l' augusto vecchio, E verso la magion prese il sentiero. Per un istante il capo ella rivolse, E sparsa di rossor, le poche rose Ch' avea raccolte e timido saluto Diede al garzon, che ravvolgendo in core Sublimi visioni, inscio de' fati Che in patria 1' attendean, scese dal colle. AD UN AMICO ABILE SUONATORE DI PIANOFORTE nel Novembre 18i8. T' accosta all' eburneo Canoro strumento; DegF inni d' Italia Kidesta il concento; DegP inni che al Teutono Imbiancan la gota, Ridesta la nota. Rapito nel vortice Dell' onda sonora Indomito e libero Vo' credermi ancora. Sia sogno : a quest' anima Lo splendido sogno E fiero bisogno. Fuggente V Austriaco D'un ultimo sg-^do Saluta dal Brennero , 40 AD UN AMICO. Il ciclo lombardo: Sul (loppio suo pelago Si asside regina La Donna latina. Festose, col sonito Di sciolti torrenti, Sul Tebro si accalcano L' italiche genti ; Devote sospendono Agli auspici altari I liberi acciari. Membrando con lagrime Le corse fortune, Le preste vittorie D' un' ira comune, A lieti si accolgono Fraterni conviti Guerrieri e leviti. Chi son quelle pallide Scettrate figure, Che torve bisbigliano Arcane congiure? I fati d' Italia Maligno dall' ara Un fato separa. AD UN AMICO. 41 Del pianto ricercami, Amico, la corda Che d' Adige e Mincio Le tombe ricorda, E lesa d' un martire L' augusta corona In riva di Olona. D' un sangue magnanimo Indarno cruenta Le fughe, i patiboli Italia lamenta; De' figli sul cenere Lamenta V insulto De' barbari inulto. Che speri, o carnefice? Dall' urna de' forti Repente fiammeggiano I brandi risorti: Antica de' popoli. Diletta al Signore, Italia non muore. Amico, ricercami La corda che freme. Che susciti il palpito Dell' itala speme ; 42 AD UN AMICO. Che l'ebbre vigilie Conturbi d' affanno Al giovin tiranno. In seno all' adriaca Non doma laguna Ardire superstite Le folgori aduna: Al nembo barbarico Ruggendo si oppone De' dogi il leone. Sui mari rimormora Il rombo guerriero: In capo r Allobrogo Rimette il cimiero, E vindice impavido Suir insubre vallo Sospinge il cavallo. PSICHE. 0 dell' anima umana, a cui fatale È sovente del ver la conoscenza, Immagine gentil, Psiche immortale; 0 divina farfalla, a cui V essenza Delle cose è nascosta, o sol si svela Quanto basti al gioir dell' innocenza ; Lascia, Psiche, l' improvvida querela, Né desiar conoscere lo sposo Che la temuta oscurità ti cela. Men dolce, o semplicetta, è bacio ascoso? Dolci meno gli amplessi e le parole, Onde bea Quel non visto il tuo riposo? D' aurati sogni e di leggiadre fole Popolata è la notte ; ombre giocose, Che col primo splendor dissipa il sole. 44 PSICHE. Cogli, fanciulla, le furtive rose, E non cercar, se sia mortale o nume Colui che ne' divini atri ti pose. Ella non ode. Della manca al lume Schermo facendo, il talamo vietato Entra perplessa e pende in sulle piume. Pende e rimira. Sul purpureo strato Chi mai rimira? Giovincel che giace In nettareo sopore addormentato. Ale ha di giglio agli omeri : una face Fuma a pie delle coltri. Oh, quanto il detto Deir invide sorelle era mendace ! Drago non già , ma più che umano aspetto. Rosa che innanzi 1' alba orlan le brine, E la guancia gentil del giovinetto. Aleggia sulle labbra porporine Molle il respiro, ed in vezzose anella Scende pel collo fluttuando il crine. Come stupisce! come in sulla bella Faccia immobile figge la pupilla In dolc3 estasi assorta la donzella! PSICHE. 45 Mentre riguarda, e dentro il cor le stilla Ignota voluttà, dall' agitata Lampada si dispicca una scintilla, E stridula si apprende alla rosata Spalla d' Amore, che con alto grido Balza dal letto esterrefatto e guata Psiche smarrita ed il rasoio infido E r odiata lucerna : alle nemiche Ombre s' invola con terror Cupido. Or chi sa dirmi, poverella Psiche, Le minacce di Venere e gli sdegni, I tuoi miseri errori, e le fatiche? Varchi tremante a' sotterranei regni, E reduce dell' acque d' Acheronte L' anfora colma a Venere consegni. Or di piselli e di lenticchie un monte, Di semi di papavero e di miglio, In un confusi, ti rimiri a fronte; E Citerea che con superbo piglio T' ingiunge di scevrar grano da grano. Prima che il sol le si nasconda al ciglio. 46 PSICHE. E tu, conio insensata, all' opra invano Movevi, 0 poverella; e già la sera L' ombre allungava sul deserto piano, Quando mossa a' tuoi guai venne la schiera Delle preste formiche a darti aita; Ed il sol tutto ascoso ancor non era. Che scegliendo, traendo e la spedita Spalla indefessa quelle pie gravando, Per te V ardua fatica ebber fornita. Ed or novellamente ir devi in bando; Ancor di Pluto alle dolenti case Di Venere t' invia V aspro comando. Della beltà, che guasta le rimase, Or t' è mestier dall' infere magioni Alla Dea riportar V occulto vase. Riporta, Psiche, a Venere i suoi doni; Né di vezzi femmineo desio L' orciuol fatale a scoperchiar ti sproni. Aperto è '1 vase. Soporoso e rio Esce quindi un velen che all' infelice Preme le membra di mortale obblio. PSICHE. 47 Assonnando dechina la cervice Sovra r omero : in volto si scolora, Né più voce 0 sospir dal petto elice; Amor placato accorre e la rincora, La ravviva e sostien. Già meno altera, Vener si piega ad abbracciar la nuora. Oh! la tua Psiche, Amor, che lusinghiera Sul sen ti si abbandona, al ciel trasporta; Diva raccolta in tua beata sfera Faccianla alfine i propri mali accorta. PER UN AMICO PARROCO. E tu pur, vòlto disdegnando il tergo Air auree larve dell' età primiera, Candido amico, in solitario albergo Vai di tua vita a seppellir la sera? Ingenuo ti conobbi : a' vili avverso : Di cor gentile e di modesta brama, Benché V invidiata onda del verso Pegno ti desse di superba fama. 0 quanti mai, se il tuo possente ingegii' Avessero dal ciel sortito in dono, Chiaro di sé nell' apollineo regno Avrian levato ambizioso suono! Ma tu pili saggio, di ben far voglioso, Non di parer, al santo officio intento, Viver togliesti in erma villa ascoso, Di conversar cogli umili contento. PER UN AMICO PARROCO. 49 Suona la squilla. Sulla via frequente Sparsa dì fronde e di silvestri fiori In adorno vestir esce la gente. Parchi coloni e semplici pastori, Che lungo il prato in bipartita schiera Addensando si van, come talvolta In fondo alP orizzonte, che s' annera, Nuvola sovra nuvola si affolta. Ecco tu spunti fra 1' ombrose piante E di subito cessa ogni bisbiglio; Con intento desìo nel tuo sembiante Ecco si affisa immobile ogni ciglio. 0 quanti voti il popolo raccolto Non forma in cor! quanti pensier felici, Mentre tu passi e con benigno volto A' tuoi cari sorridi e benedici ! E te messo di Dio la madre addita Venerabonda a' pargoletti figli, Cui ne' duri cimenti della vita Luce sarai d' esempi e di consigli. Ma la pudica giovinetta in petto Accoglie altri pensier, mentre ti vede; Previen co' voti il dì che benedetto Per te fia V amor suo dell' ara al piede. Zanella. 4 50 PER UN AMICO PARROCO. Tutto è speranza a te d' intorno e fest;i Spera V agricoltor che la tua mano Terrà lungi il furor della tempesta, Quando biondo ne' solchi ondeggia il grano Confida V orfanel, se inopia il prema, Di non battere indarno alle tue porte; Se tu lo veglierai nelP ora estrema. Spera men dura il vecchierel la morte. 0 fortunato, che in sì dolci cure Chiuderai de' tuoi giorni il cheto giro. Finché ti resti sulle altrui sventure Una lagrima sola, un sol sospiro! POSSAGNO. Prole negletta, faticosi alunni Delle negre officine, a cui la pialla E r incude sonante è brando e trono ; Nato d' umili padri e ne' conflitti D' aspra fortuna, come voi, cresciuto Era il Divino che a quest' ermo colle Diede fama perenne. Or se di stemmi E gentilizie porpore fastose Circondate non fur le vostre cune. Viltà di core non vi gravi il ciglio; Che vostra nobiltà pura rifulge, Scabri eroi del lavoro, a cui le mani Mai non grondare di fraterno sangue. Vostro è Canova ; ne d' illustre ceppo ^^Che le radici favolose inciela, ^Wide il secolo uscir gloria maggiore. I Sacra è la terra che calchiamo; è sacra Quest'aria, amici, e le petrose balze 52 POSSAONO. Che Possagno coronano. Fanciullo Al cupo rezzo de' castagni antichi Qui s'assidea Canova, alla natura Le man tendendo desioso; e bella, Come altra volta all' angelo d' Urbino, Si svelava natura al giovinetto. Qui canuto re diva in compagnia Dell' arti adulte, e l' inclito delubro. Candido delle azzurre alpi sul fondo, Alla Triade poneva. Augusta mole. Italo Partenon, che valli e monti Altero signoreggi e di tutela Onnipotente le montagne affidi. Salve! Stridendo la folgore acuta Torce altrove il suo volo e s'inabissa Delle valli a destar 1' eco profonda. Sdegna i prischi subbietti e per sentieri Inusitati a men riposte fonti Guida dell' arti obbedienti il coro L" innovatrice età. Docil s' inchina Degli argivi scalpelli al magistero; Pur di natura all' inesausto grembo Vergini fantasie chiede l' ingegno, Che de' suoi tempi agli ultimi nepoti Schietta l' immago tramandar desia. Tanta del vero generosa sete Il secol nostro infiamma! Alla vetusta POSSAGNO. 53 Chioma di Polignoto e di Lisippo Noi non pertanto sfronderem gli allori; Né all' arti insulterem che i trionfali Ozi allegrar della divina Roma. Bella mitica Dea, che dal Cefiso E da' lauri vocali di Elicona Costretta a fuggir fosti, ospite asilo A' vaganti tuoi numi ed alle muse Su questo colle aperse italo Fidia. Quali gli uscian dall' infiammata idea, Nella creta qui stanno ancor spiranti I simulacri, ond' ei le tombe, i fòri, I delubri e le roggie ornò di Europa. Quanto popol d' eroi ! quanto di ninfe, Dell' Ilisso i lavacri abbandonando, Queste pendici ad abitar non venne ! Vedi la giovinetta Ebe, leggiadra Del nettare ministra, che d' Olimpo Scende veloce : carezzevol aura La veste addietro le respinge e svela Delle membra divine ogni contorno. Vedi la Ninfa che sorpresa al bagno I bei veli raccoglie e si ritira Paurosa guatando. Ecco le Grazie Che, le braccia conserte in dolce amplesso, Disegnano sui fior lente carole. Su'nivei lini Citerea riposa Velando gli occhi: Amor tocca la cetra 54 POSSAGNO. Soavemente e le lusinga i sonni. In altra parte disarmato il braccio Cinge al collo di Psiche, e la farfalla Nata del cielo a trasvolar pe' fiori Sulla palma le posa. In alto scote La Danzatrice i crotali sonanti, E chiama a pace ed a letizia il mondo. E tu r ardor delle battaglie ancora Spiri dal guardo e dall' egioca fronte, Vincitor di Marengo. Al tuo delitto Tarda ammenda in Magenta e Solferino Fece il Nepote; ma fremendo Italia Ancor di te si risovviene e plora, Campoformio pensando ; ed a' tuoi mani Ridomanda i guerrier che di lor sangue L' artiche nevi a colorar traesti, E alla madre potean scior le catene. Più generoso Ettòr che dall' amplesso D' Andromaca s' invola, e stringe il brando Per la patria cadente incontro al truce Telamonio ; e di lauro anco più bello Va cinto il Fabio american che calca D' un pie la spada e sulP eterno foglio Segna libere leggi al Novo Mondo. Ma della terra gì' infiniti guai, Chini i ginocchi e le man giunte, al cielo Il Pontefice narra. Nel diffuso Aureo paludamento e nella faccia POSSAGNO. 05 Di pietade atteggiata e di speranza Maestosa di Dio V aura sfavilla. Quando del bello immaginar la fiamma Avvivar vi talenti ; o doloroso Più vi sembri il tenor di vostra sorte, Voi del lavor mal conosciuti figli, Questo colle salite. Esce dal tempio, Esce dal suolo eccitatore un grido, Che ardimento v' apprende e contro il fato Insultator magnanima costanza. Il mendico orfanel che fu veduto Su questi monti esercitar nel sasso Il volgare scalpello, un giorno sparve, Né per lunga stagion parlar di lui L' umil borgo s' intese. A terra sparse Son le magioni e le prosapie estinte De' patrizi che al povero d' aita Fur liberali e di consigli. Ambito Le reggie intanto ei visita e nel marmo •i temuti mortali il volto eterna. *oi riede; e di sublimi monumenti icnde chiaro per sempre il suol natale. VOCI SEGRETE. Aeree voci, che di concenti Misteriosi V orecchio empite ; P'iochi susurri, sommessi accenti, Donde venite? Chi di me parla ? D' obbliqui detti Segno mi fanno lingue scortesi? Fan di me strazio maligni petti Ch' io non offesi ? Chi mi ricorda? Tenue bisbiglio, Pari a tintinno d' arpa remota. Forse una cara mormori al figlio Materna nota? 0 degli amici, meco vissuti Sotto le dolci patrie montagne, A questo core porti i saluti Che ancor li piagne? VOCI SECHETE. 57 Sia che da' monti, sia che dall' onde Amor vi mandi, sia che da' cieli, Di caro spirto che si nasconde, Nmizie fedeli, Voci gentili, per voi maggiore Sorgo degli anni, sorgo del fato; Fammisi immenso tempio d' amore Tutto il creato. 1 LE ORE DELLA NOTTE. Con bruni sandali E taciturne Scendono, passano L' ore notturne, E nel lor transito Air universo Mobile imprimono Volto diverso. Tornano i vomeri; Fumano i tetti; L'Ave ripetono I pargoletti; Appena è vespero, E già tranquilla Sotto le coltrici Posa la villa. LE ORE DELLA NOTTE. 59 L' ombre si addensano : In auree stanze Specchi rifulgono, Erran fragranze; Scalpita e smania La giovinetta Che il velo roseo Pel ballo aspetta. Triste sollecita L' opera altrove E r egra lacrima Sovra vi piove Orfana vergine Che neir accesa Gota funereo Morbo palesa. Tace di popolo Sgombro il viale; Tra Ferme acacie Langue il fanale; Pari la reggia Al casolare Neir ampie tenebre Scende e scompare. (^0 T.E ORE DELLA NOTTE. Remoto vicolo Empion (li canti Fra nappi e cembali Scinte baccanti ; Tende 1' oreccbio Da semiaperta Finestra e palpita Sposa deserta. Lo stame attenua Della lucerna, Computa, novera, Fogli squaderna, Mida famelico Che dell' erede Dietro se V ilare Ghigno non vede; Mentre da' fulgidi Covi del gioco. Lo sguardo vitreo, L' anima in foco, Esce il patrizio Che della zolla Ultima Cerbero Plebeo satolla. LE ORE DELLA NOTTE. 61 Profondo e lucido L'aér traspare; iadi e Pleiadi Fansi più chiare; Sbadiglia, abbrivida, Scote di brine Vigile astronomo Ptorido il crine. Con ala nivea Per r aure brune I sogni or piovono Sovra le cune; Ridon r inconscie Alme leggiadre; Piidono agli Angioli, Chiaman la madre. Sommessa mormora Un caro nome; Scorrer d' un bacio Sulle sue chiome Sente 1' anelito Vergin, che desta Con alto tremito Volge la testa: 02 T>K ORK PELLA NOTTE. Vede distendersi Sulla cortina Il raggio argenteo Della mattina. Trilla sugli embrici La rondinella; Suir aia crocita La gallinella; Scoppia dall' ardua Torre la squilla; Ridesta all' opere Torna la villa. PER LA MORTE DI DANIELE MANIN AVVENUTA IN PARIGI IL '22 SETTEìMBEE 1857 E PASSATA IX SILENZIO Da' GIORNALI AUSTRIACI. Sovra le aeree Guglie e sui Piombi Lo bisbigliarono Prima i colombi: Entro la gondola Nessun discese E pur r intese Il battellier: Trema, o stranier. Di Calendario Sovra la scala Udissi il transito Come d' un' ala ; La testa alzarono E ne' sembianti I due Giganti Cupi si fer: Trema, o stranier. 64 PER h\ MOUTE DI DANIELE MANIN. Entro a' sarcofagi Air ombra in seno Desti favellano Foscari e Zeno; | Libero ad ospite j Ancor nascosto j Lasciano un posto Dell' origlier : Trema, o stranier. Freme Vinegia j E si risente Al noto anelito ' Dell' Oriente; ' Vivido anelito Vien di Crimea, Alla galea Noto sentieri ■■ Trema, o stranier. p Della basilica :; Ritti sugli archi L' aurora attendono I Patriarchi; Al ciel le pàtere Colme di pianti Levano i Santi Dal lor pilier: Trema, o stranier. l'ER LA MORTE DI DANIELE MANIN. G5 Sotterra al Martire Poser vicino Bordone e sandalo Di pellegrino. L' aura d' Italia Passa sulle ossa; Della riscossa Arde il pensier: Trema, o stranier. Zanklla. A DANTE ALIGHIERI. Misurato!' di mondi. Che disdegnoso di più breve lito I pelaghi profondi Solcar dell' infinito Fosti con vele ancor caduche ardito ; Se questa età, che d' oro Volge in sorgente lo scoperto vero, Torna al tuo santo alloro, Non anco del pensiero Tutto la creta conquistò V impero. Padre, dal dì che in cielo Eri con Bice novamente accolto, Quanto del fosco velo Al guardo uman fu tolto, Onde giaceva V universo avvolto ! A DANTE ALIGHIERI. 67 Ne' chiostri ancor romita Il dito non togliea dal suo volume Filosofia, che ardita Or drizza al sol le piume E le rideste menti empie dì lume. Neir acque di Ponente, Ove locasti il sospiroso regno Della compunta gente, Spezzato ogni ritegno. Auspice entrò d' un Genovese il legno. Son mille terre Di tesori, di popol S' asita un mondo "O' e denso di navi immenso, Ove ne' flutti ignavi O' Occultarsi a' mortali il sol pensavi. Lascia le anguste sedi Esule Europa e del Meriggio ai mari. Che le son contro a' piedi. Porta operosi lari. Liberi cambi e non macchiati altari. Padre, il tuo sol disparve )o' cieli di cristallo. Un tuo Toscano Delle pugnate larve Atterrò l' idol vano E del creato rivelò V arcano. it 68 A DANTE ALIGHIERI. A' rai del ver caduta È la vetusta idea. Ma la tua stella Il mondo ancor saluta, Che dalla tua favella Sentì r aure spirar d' alba novella. 0 deir inciso verso Inflessibil signor che in poche carte Hai chiuso 1' universo, Del folgore dell'arte L' indomabile armando ira di parte ; Le torri e le badie Che ti accolsero errante, or son mina; Sovra men scabre vie Umanità cammina Col làbaro immortai: Fede e dottrina. E tu nel lungo corso Sempre innanzi le stai, come montagna Che via per 1' ampio dorso Deir onda, in cui si bagna, Le vele che dileguano, accompagna. Vive di te V eterno. Se r umano perì. Dal ciel discende, Risale dall' inferno L' austero suon, che apprende Dell' alte cose amor che i degni accende A DANTE ALIGHIERI. 69 Amor, che dalle pugne Di questa valle per eccelso giro A Lui ne ricongiugne, Che dell' ardente spiro Nutre la rosa del beato empirò. 0 Padre, cui risorto Risorse alfin V italica fortuna. Se mai fallisse al porto. Ove ogni ben s'aduna, Questa terra fatai che ti fu cuna; Al tempio tuo che immoto Leva la fronte su divine alture. Porga fidente il voto; E rinnovate e pure Dal monte scenderan V età venture. DUE VITE. Chi di te più solingo e miserando, Celibe antico che, a' tuoi dì migliori Il santo nodo maritai sdegnando. Bevesti al nappo di venali amori? Chi di te più dolente? Il capo imbianca; Ma non doman le nevi i vecchi ardori. Furor vano di prede agita e stanca Il morente lione. Ecco affannoso T'è '1 respiro; la vista ecco ti manca. Da ree memorie combattuto e roso Sui profumati serici guanciali Hai querula la veglia, ansio il riposo. Divorasti la vita. Ora i tuoi mali Narri assedili del deserto tetto E Talto cruccio in empi motti esali, DUE VITE. 71 Sol ne' spasimi tuoi, senza V affetto D' una fida che accorra al tuo richiamo, Ombra spirante ; e t' è già tomba il letto. Tale nel verno sovra nudo ramo . Per morire si posa, al dubbio lume Crepuscolare, augel vetusto e gramo; Trema alla brezza che raggela il fiume, E meschiata di neve ad una ad una Le logore si porta ispide piume. Allegra intanto alla capanna bruna, Laggiù nella vallèa, del pio villano La bella famiglinola si rauna. Dal dì che alla sua Lena ei die la mano. Cinquanta volte nel sudato campo Crescer mirò,, nò sol pe' figli, il grano. Splende il camino: al crepitante vampo Del ginepro festeggiano la santa Xotte in cui dal ciel venne il nostro scampo. Di lauro intorno un'odorata pianta Di rosee poma onusta e di ghirlande Lo sciame de' fanciulli esulta e canta. Innocenza le povere vivande Di mei cosparge; e fra i nepoti in festa L'avolo intenerito il suo cor spande. DUE YITK. Poiché tanta ne' suoi vita gli resta, (Sia r ultimo anno, o più fiate il crine Vegga ancor rinnovarsi alla foresta) Di sé contento, appiè delle colline Su cui già biondo conducea la gregge, Placido attende de' suoi giorni il fine. 0 natura, natura! Alla tua legge Ben saggio è chi si arrende; e d'uno scherni Amoroso i caduchi anni protegge! A pio figlio appoggiando il fianco infermo Or visita le mèssi alla campagna; Or la chiesuola villereccia e 1' ermo Recinto, dove la morta compagna Di sotto r erba con sommessa voce A se lo chiama e del tardar si lagna. Cede al pondo degli anni; e non gli nuoc Se sculta in oro lapide fastosa Non ricopre il suo fral: sotto una croce, Che la Fede infiorò, meglio riposa. f A FEDELE LAMPERTICO. Di pochi lustri io ti precorro, amico, Nelle vie dell' età ; ma quante usanze Ch' erano in fiore ne' miei primi tempi Io non vidi cader ! quanti costumi Che tu non conoscesti, o solo appresi Hai dal labbro de' vecchi ! Or son fecondi, Come secoli, gii anni. In opulenta Culla e fra gli agi di città gentile Tu le care del giorno aure bevesti; Io dentro picciol borgo, in erma valle Cui fan le digradanti alpi corona, Vissi oscuri i miei dì, finche novenne Alla città mi trasse il mio buon padre A dibucciar la prima scorza. Il giorno Era de' Morti. I flebili rintocchi Della campana all' attristato core Crescean tristezza. Mal celando il pianto, Neil' usato cortil co' vecchi amici Suir imbrunir venuti a salutarmi 74 A KKDKLE LAMPEHTHO. (jriocai r ultima volta. Un cardellino, Mio compagno d' csiglio, innanzi all' alba Cantarellando mi destò: del mondo Al paro conoscenti entrannno in via. Alle venture età, quando i nepoti L' avo a sera raccolga, e novellando La cadente del sonno ala sospenda, Di giganti epopea meravigliosa Questo secol parrà, di cui la soi!;lia Tengono immani Bonaparte e Volta. Come rósa dagli anni eccelsa ròcca, Queir antico di servi e di signori Edificio cade. Sovra le piazze. Di strana arbore all' ombra e fra le danze Della folla beffarda, arser gli stemmi Che d' infiniti spazi il titolato Sir dalla gente divideano. Il dritto Si disconobbe delle prime fasce; E partito egualmente a' molti tìgli Scese il censo paterno. I latifondi || Che orante cenobita abbandonava Alla randagia pecora, innaffiati Dal libero sudor d' industri volghi Lussureggiar di varia mèsse ; all' opra Eran stimolo i figli e lo sgomento Del pubblico esattor. Regali vie Alle città lontane agevolavo A FEDELE LAMPERTICO. 75 I fraterni commerci; e vie minori All'urbane eleganze il varco aprirò Degli alpestri villaggi, ove a gran stento Con pettini e con nastri all' annua fiera Si arrampicava il mulattier. Trascorse Grido di guerra le solinglie valli E gloria lusingò gli agresti cuori, Quando scampato dalle lunghe pugne E altero di sue piaghe il contadino Narrava a' padri le vedute cose, Saragozza, Stralsunda e miseranda Voragine d' eroi la Beresina. Insolito splendor d' arti rifulse, E ferree spole e leve onnipotenti Al braccio umano alleviar fatica. Addoppiando il lavor. Su poderose Ale di foco continenti e mari Corse cupida industria: alla parola Diessi il volo del lampo; e convenuti A banchetto commi da tutti i venti Vari di volto e d' abito i mortali La prima volta si gridar fratelli. Barbogio vate che s' adagia al rezzo Dell' arcadiche selve e di Fileno Per la bella Amarilli i lai ricanta. Contro il secolo insorga; e dal tugurio D' ingentilito contadin, che legge A FKDKLK LAMPEBTICO. Air accolta famiglia util volume, Gridi fuggiasca V innocenza antica. Dolce ricordo a lui sian le pareti Fuligginose e borea che fischia Dal balcon non difeso. A mezzanotte Dentate strigi e lemuri danzanti Sulle brage sopite; e gemebonde Per le scale cadenti e sotto gli usci L' alme de' morti ispirino la nmsa Che deplora scomparsa un' altra volta Di Saturno 1' età. Che se la fame, Quando 1' angusto campicel negava L'annua raccolta e di straniere mèssi Per r inospiti vie speme non era, I coloni nel verno a centinaia Implacata mietea; se fiero morbo Non circoscritto da salubri leggi Nella vorace fossa tuttoquanto Addensava il contado, avventurosi Pur ei chiami que' dì, perchè di tele Americane non fasciava il fianco La leggiadra villana, e mattutina 1 Bevanda ad essa la fumante tazza Dell' arabo legume ancor non era. Pianga gli agi cresciuti: de' misfatti, ^ Onde il secolo è reo, ricchezza incolpi; |fl| E madre di virti^i, sola maestra D' aureo costume povertà saluti. A FEDELE LAMPERTICO. 77 0 mìo candido amico, o delle fonti Onde sgorga ricchezza e si comparte, Sagace scriitator, più volte intesa La rettorica nenia avrai di gufi Avversi al sole. Veneranda, augusta E povertà, se al focolar si assida D'operoso m^ortal che lotta indarno Contro i colpi d' indomita fortuna. Ma se d'ignavia e d'ignoranza è figlia; Se la man che il Signor fece al lavoro. Altri supplice tenda al passaggero; 0 finché gli anni arridono e le forze, Pago del vitto giornalier, non curi L'egra vecchiaia provveder di schermi; Sommo de' guai che attristano la vita, E povertà che con ferro e con foco, Come sozzo mortifero serpente, Fugar conviene. Allor che 1' abituro Dell' artigiano io visito e le stanze Nitide veggo ; ripulite sedie E vasellami ; d' odorata pèrsa 0 di semplice timo i davanzali Veggo fioriti, di virtù mi sembra Dolce un profumo errar per la ridente Magion che la fatica orna e consacra. Ma qual d'affetti gentilezza? o quale Dignità di pensier dentro l' immonde Umide cave del disa^fio? Il lezzo. /.S A FEDELE LAMPEKTICO. Che le membra contamina, s'apprende Allo spirto invilito ; e non de' figli Che onorati si allevino e gentili, Punge i sordidi padri alcuna cura. Lode air età che migliorando il vitto E la veste e V albergo all' umil volgo. L'alme ancor ne migliora; e fra le gioie Di cheto casalingo paradiso GÌ' insegna abbominar bische e taverne. I ritegni sparir. Rotta la nebbia D' antichi errori, e di dottrine e d' arti Fatto adulto e possente al suo meriggio L'uman pensiero glorioso ascende. Or tanta luce di scoperte e tanta Fiamma di brame indefinite, immense AU'uom largite non avrebbe Iddio, Se del pan che matura il patrio solco, E del vestir che la vellosa groppa Di domestica agnella gli consente. Dirsi pago dovea. Sir del creato, Come sotto ogni ciel, dall' Orse algenti Air adusto Equator trova sua stanza. Né salute gli scema o vigoria; Così da quante terre e quanti mari L' occhio esplora del sol, tributi accoglie. Nel suo tetto regal, cui fanno lieto Turcheschi drappi ed anglici cristalli, A FEDELE LAMPERTICO. 79 Bello veder di giapponese argilla Sugli orli rosseggiar fiore cresciuto Della Piata sul margo; e tremolante Sovra il crin delle nuore e delle figlie Candida piuma che agitò le sabbie D' africano deserto. A me sgomento Opulenza non dà che guiderdone E d' industria e saper : l' invida io temo Losca ignoranza che squallore ed ozio Copre col manto di virtù celeste; Tetro, deforme, sciaurato mostro Contro cui colla penna e più colF opra Tu, generoso delle plebi amico, Sì frequenti e gagliardi i colpi assesti. A MIA MADRE. Al limitar di morte Correvi, o madre. Colla cerea mano Gita picchiavi alle porte Caliginose; e qual dall' oceano Sale suir alba im zefiro, i tuoi veli L' aura agitava de' propinqui cieli. De' figli, 0 benedetta, Il pianto udisti. Affranta, ma serena Per la tua cameretta L' orma ritenti con perplessa lena, E ti par tutto novo, il cielo, i fiori Che con desio da' chiusi vetri esplori. Rimani, o pia. La vita Quali dolcezze a te più serbi ignoro; Ma di tua santa aita Ancor uopo ha quest' alma; ancor t' implora A' virili anni miei fido riparo, Come già fosti al fanciuUctto ignaro. A MIA MADRE. 81 Madre! Il tuo caro viso, I santi detti tuoi che a me bambino, Su' tuoi ginocchi assiso, Furon maestri, ancor contento inchino. Semplici detti; ma T ingegno umano Forse con frutto scandagliò 1' arcano ? Forse il pensier si acqueta, Quando in eterno d' atomi tumulto Che non ha legge o meta. Pone de' mondi il nascimento occulto? Se mi grido frate! del sozzo urango Si appaga il core? o sente men di fango? Madre ! Di dotte inchieste Tornan ben lagrimevoli gii allori. Se più crucciose e meste Fansi le vite e piiì gelati i cori. Se dal ver riedo meno eccelso e puro. Amo al tuo fianco riposarmi oscuro. I: La Fé che questo adorno òtante padiglion dell' universo In preveduto giorno Sia dall' abisso al divin cenno emerso ; Che l'uom primier pel mal gustato frutto Sé travolgesse e tutti i suoi nel lutto: Zanella. G S2 A MIA MADRE. La Fé che mi ragiona D'un Vindice immortai che al giusto afflitto Ricigne la corona Che per poco usurpossi ebbro il delitto; La Fé eh' oltre la tomba in diva luce, Ombra amorosa, aMniei mi riconduce; Questa pia Fé che agli avi Repubblicani benedì le vele; Di Vergini soavi A Raffaello popolò le tele; Questa pia Fé già reo non fammi o stolto. Tal che ne celi per vergogna il volto. Finché per lei mi sento Cittadino non vii; finché per lei Il foco non è spento Dell'arte che governa i pensier miei. Madre, non fìa, non fìa che V abbandoni Per seguir più superbi inani suoni. Varcan quaggiù sorelle Sapienza e Scienza. Audace, esperta Al correre, e le belle Membra di screziati ostri coperta, Più cupida Scienza e giovinetta Tutto il creato a misurar si getta. A MIA MADRE. 83 Scende nel mar: de' venti Cerca le patrie: di gemmate grotte Ne' lunghi avvolgimenti Di titaniche età turba la notte: Vola fra gli astri, e V universo intero Disvelato vagheggia al suo pensiero. Ma più modesta il manto E più soave al portamento, all' atto Vien Sapienza accanto Della balda sorella; e tratto tratto De' rischi 1' ammaestra e de' divini All'ingegno mortai posti confini. Felice se all' accento Della suora maggior l'orme misura E tempra 1' ardimento L' altra del suo veder troppo sicura ; Nettare allor, di nullo amaro infetto, E del ver la ricerca all' intelletto. IL LAVORO. Col sole che al monte le cime colora, Si leva r artiere che all' opra ritorna. Il mantice stride ; V incude sonora A' torpidi intuona : sorgete, che aggiorna. Neir umida zolla discende feconda Del sole la luce che il germe matura; S' imporpora il grappo : la mèsse s' imbionda : Il desco a' mortali prepara natura. Rivale del sole, dell' uomo la mano Nel pigro elemento trasfonde la vita; D' ascosa ragione strumento sovrano, L' inerte materia coli' Util marita. Levate, fratelli, levate la fronte Neil' opra compagni dell' astro gigante, Che indura la quercia sul dorso del monte Che spento carbone ralluma in diamante. j IL LAVORO. 85 Da' colpi domata del vostro scalpello Il fregio riceve la pietra ritrosa; L' indocile acciaio si. arrende al martello ; Tagliata nel legno si schiude la rosa. All' opra d' un solo ben ricca mercede Di mille vien V opra : di scambio fraterno Per lunga catena ciascuno possiede Il pane pe' figli, la veste pel verno. All' uopo comune per 1' acque lontane, Anello de' mondi, la nave cammina, Che al vostro telaio riporta le lane A' fiumi deterse dell' ultima Cina. Volate, fratelli, volate al lavoro Che in fervide gare lo spirito affranca; Il tempo, è ricchezza; le braccia tesoro Che abbonda a' volenti, che usato non manca. De' ferri al rimbombo più larga nel core Piibolle la vita, coni' onda battuta : Se taccia dell' arti 1' allegro romore. In freddo deserto la terra si muta. Fuggiasco da' piani che riga il Missuri, A stirpi più degne serbato retaggio, Sonar ne' suoi boschi d' Europa le scuri Intende dappresso l'ignaro Selvaggio. 86 IL LAVORO. Con fauci fumanti, con ala di drago, Che il fianco ha precinto di folgori e tuoni,- Ascender rimira pel trepido lago Il nero naviglio de' lesti coloni. Superbo dell' arco, V aratro e la spola Meschino respinse che industria gli porse; Presago di morte, da' campi s' invola Che in vana contesa cacciando trascorse. A' mari mugghianti d' eterne tempeste, A' gialli paduli cruccioso discende : Suir erme scogliere che l' alga riveste, Di fame a morirvi, raccoglie le tende. Air aure frattanto che corrono Irlanda, La provvida vela discioglie il piloto Che un popol di forti che pane domanda, Air isole guida dell' Austro remoto. Si tolser piangendo dal vecchio abituro, Dal rustico altare di nevi coperto; La fede nel core, negli occhi il futuro, Traversan dell' acque l' immenso deserto. Pregato conforto ne' pavidi esigli L'antico pastore co' mesti si asside, E dice: dovunque Dio pasce i suoi figli; Dovunque a' gagliardi fortuna sorride. IL I,AVORO. ^/ A' greppi divelta dell'alpe natale In rive migliori la pianta si attrista; Ma sotto ogni cielo V errante mortale Con vomero e pialla la patria conquista. Pel suolo maligno che il pianto dell' uomo Feconda per V uomo torpente nel fasto ; Per l'aer nebbioso, pel sordido pomo, Ne' squallidi inverni miserrimo pasto ; Un mare n' attende che splendido ondeggia Fra mille isolette di palme vestite; N' attende un terreno che accoglie la greggia. Al gelso benigno, benigno alla vite. Intatte miniere perenni alimenti Ministrano al foco: dall'alte pendici Rimbomban cadendo non visti torrenti Che attendon la rota de' nostri opifìci. Le spesse foreste da' vergini flutti Eleva il corallo che al mondo, eh' invecchia, Neil' ospite letto di pelaghi asciutti D' imperi venturi le sedi apparecchia. Da' pingui novali col volger de' lustri Io miro i nepoti discendere al lido, ^Che fieri di cento repubbliche industri, ur memori ancora del nordico nido, IL LAVOllO. Ritornano al porto con aurei vascelli, Al porto cui nudi ier demmo il saluto; Ne' fòri vetusti co' grami fratelli Dividon concordi d' un mondo il tributo. LA VIGILIA DELLE NOZZE PEL MATRIMONIO PORTO-PRINA DI VENEZIA. Eri gioiosa i dì passati. Amore Ti spirava ardimento; e la speranza Di vaghi sogni ti nudriva il core. E ti parea che la materna stanza, Ove crescevi colombetta ascosa, Abbandonata avresti in esultanza, Per venirtene all' ara e con la rosa Nuz'ial sulle chiome al tuo diletto Giubilando la man porger di sposa. 90 l'A VKilLlA 1>ELLK Xo/ZK. Oggi non più. Da discordante affetto Tocca e sparsa di lagrime che ascondi, L' ingenua faccia declinando al petto, Maria, tu siedi muta e ti confondi Al pensier del domani, e de' tuoi cari Sol con singhiozzi al salutar rispondi. Piangi, fanciulla! Ad uom che i noti lari Cangia con mobil pino e si periglia Entro la scura immensità de' mari, L' anima il primo dì non si scompiglia, Come a modesta vergine che tolta Venga a' dolci ozi della sua famiglia. Guarda al cheto stanzino, ove raccolta Sera e mattin s' inginocchiava, orando Fervida a Lei che gl'innocenti ascolta: All' augellino, a' fior che a quando a quand' Di sua mano innaffiava; all' umil scranna Su cui, r ago 0 la penna esercitando. Sedeva; e chiusa doglia il cor le afl'anna. Or che deve lasciarli, e pensa e plora Turbata e 1' amor suo quasi condanna. M LA VIGILIA DELLE NOZZE. 91 Addio, materni vezzi! Addio, dimora Di pace e riso! Del perduto bene Chi r accorata vergine ristora ? Agar novella, per V ardenti arene Move di pauroso eremo e porta In vasel suggellato, unica spene. Dello sposo Tamor. Che se un dì morta Le sia nel core questa fé: se senta D'esser sola quaggiù, chi la conforta? Così vien che più spesso il cor si penta Che più facile amò! Non tu. Maria, Che il patrio tetto puoi lasciar contenta. Quella casa t' è nota, a cui per via L' occhio levavi incerto e verecondo : Amor colà t'attende e cortesia. p Lo stesso mar, lo stesso ciel giocondo Ti fia dato goder; con lui che adori Per te fia volto in un elisio il mondo. Felice ti sapea, di miti amori Paga, a' soavi tuoi fratelli appresso, Quel giorno eh' ei t' ha chiesta a' genitori. 92 LA VKJII.I.V DKi.LK iNOZZE. Se sua ti fé, se dal beato amplesso Ti divise de' tuoi, non men ridente, Credi, la vita ti sarà con esso; Che magnanimo petto amor non mente. AD UN RUSCELLO. Fresco ruscel, che dal muscoso sasso Precipiti tra i fiori e la verzura, E mormorando tristamente al basso Ratto dilegui per la valle oscura, Rammenti ancor, quando assetato e lasso Del vagar lungo e dell' estiva arsura lo giovinetto ratteneva il passo Tacito a contemplar 1' onda tua pura ? Era quello V aprii de' miei verdi anni, Degli anni miei sereni che fuggirò Su' veloci del tempo invidi vanni. Al modo stesso, che le dolci e chiare Tue linfe, amabil rio, di giro in giro Dal patrio colle van fuggendo al mare. EGOISMO E CARITÀ. Odio l'allòr che, quando alla foresta Le novissime fronde invola il verno, Ravviluppato nell' intatta vesta Verdeggia eterno. Pompa de' colli; ma la sua verzura Gioia non reca all' augellin digiuno; Che la splendida bacca invan matura Non coglie alcuno. Te, poverella vite, amo, che quando Fiedon le nevi i prossimi arboscelli. Tenera, all' altrui duol commiserando, Sciogli i capelli. Tu piangi, derelitta, a capo chino, Sulla ventosa balza. In chiuso loco Gaio frattanto il vecchierel vicino Si asside al foco. EGOISMO E CARITÀ. 95 Tieii colmo un nappo : il tuo licor gli cade Neir ondeggiar del cubito sul mento; Poscia floridi paschi ed auree biade Sogna contento. i; a:\iohe materno. ALLA CONTESSA OLIMPIA COLLEOXI-LAMPERTICO DI VICENZA. Vokon due soli eli' io seiodiea fidente A te l'augurio di miglior fortuna. Ecco nel dolce nido, ove piangente Sedesti appiè d' una deserta cuna, Ecco due biondi pargoli vezzosi, Che ambo i padri han nell' atto e nella faccia,!: Che vispi ti sorridono e festosi Al materno tuo sen stendon le braccia. Avventurati pargoli! Né sanno, x\ncor non sanno di che immenso affetto Tu palpiti per essi; e quanto affanno A un lor vagito ti conturbi il petto! l' amore materno. 1)7 Neir aurea luce di notturne stanze Veglian le tue compagne in lieti crocchi; 0 di protratte musiclie e di danze Fanno agli orecchi allettamento e agli occhi. Tu di una muta lampade al barlume Presso i pargoli tuoi siedi le notti; E t' è dolce per lor lasciar le piume, Dolci i lievi per lor sonni interrotti. Nel tuo talamo appar della Divina Madre un' immago benedetta e pia; E lì con ansio cor sera e mattina Sollevi i verecondi occhi a Maria, Pregando Lei che del virgineo velo Covrir si piaccia i piccioli tuoi figli; E sulla cuna che li accoglie, il Cielo Mandi gli angeli suoi, piova i suoi gigli. Crescete, o fanciulletti ! Il mar v' attende, Dubbio mar della vita. In pace ò V onda ; Limpido sull'aurora il ciel risplende, E le vele vi gonfia aura seconda. Da lungi alzasi un canto e lo ripete Di lido in lido 1' aura innamorata : « 0 voi, che r onda a navigar prendete, Che senza pianto non fu mai varcata, Zanella. 7 l'amore materno. Seguitate il mio suon.clie vi conduce Di mezzo a scogli e insidiose arene, Ove un ciel ride di purpurea luce, Ove si stringe, non si sogna, il bene, » 0 cara voce del materno amore, A lievi giovanili anni conforto! Che ognor t' intenda, ognor ti segua il coi Fin che le vele sian raccolte in porto. AD UN' ANTICA IMMAGINE DELLA MADONNA. Il Oh, se quel dolce labbro, che d' amore Pur sorridendo parla, si schiudesse; Se ciò, che ascose in core [Per tanto tempo, quella Pia dicesse; Quante tacite pene e quanti voti Non d' altri al mondo, che da Lei, compresi, ■Quanti conflitti ignoti fE segreti martìr sarian palesi! L' umile paesel non ha dolori Che non ricorra alla chiesuola antica, E da te grazia implori, 0 non mai tarda degli afflitti amica. Lì sgomentata, 1' abito negletto, Vien giovin madre che per pochi istanti Air egro pargoletto Il conforto rapì de' suoi sembianti. 100 AD un'antica immagine della madonna. Pel suo fedel sepolto e pe' garzoni Lontan lontano militanti accende Povera cera e doni Di pochi fior la vedovella appende, Che conta i giorni e piagne. Oh, se non vist; La sua lagrima cade, e profumato Lin non la bee, men trista Anco sgorga dal cor racconsolato. Miti ha gli affanni il povero che crede Né per andar di tempi e di fortuna Si pente della fede, Che da' canti materni apprese in cuna. Dal fior della scienza amaro tosco Sugge r audace secolo: più tenta I chiusi abissi e fosco Più lo raggira il dubbio e lo tormenta. Stretti nel pugno i conquistati veri Sale superbo incontro al cielo: immensa Luce è ne' suoi pensieri, Ma la notte del cor si fa più densa. Per tutto investigar di tutto incerto Ciò che si creda e che si speri ignora. 0 co' tuoi sogni esperto La febbre ad irritar che ti divora, I AD un'antica immagine DELLA MADONNA. 101 Povero ingegno uman, di tanti voli, Onde il mondo abbracciasti e pellegrino Oltre i lontani soli Ferver sentisti 1' alito divino, Degno frutto ti par questa sparuta Di vii lucro maestra e di sozzura Filosofia che muta L' anima in fango e 1' avvenir ti fura V Ahi, dal dì che lo scettro in sua man tolto, « Più non v' ha Dio, » 1' uom disse e re si assise Dell' universo, il volto Scolorato abbassò né più sorrise. i. Spento il sereno fior della speranza Che rimena la stanca anima a Dio, Quello che al mondo avanza È notte sconsolata e freddo obblio. SOPRA UNA CONCHIGLIA FOSSILE NEL MIO STUDIO. Sul clliuso quaderno Di vati famosi, Dal musco materno Lontana riposi, Riposi marmorea. Dell' onde già figlia, Ritorta conchiglia. Occulta nel fondo D' un antro marino Del giovane mondo Vedesti il mattino; Vagavi co' nautili. Co' murici a schiera; E r uomo non era. Per quanta vicenda Di lente stagioni Arcana leggenda SOPRA UNA CONCHIGLIA FOSSILE. D' immani tenzoni Impresse volubile Sul niveo tuo dorso De' secoli il corso ! Noi siamo di ieri: Deir Indo pur ora Sui taciti imperi Splendeva V aurora : Pur ora del Tevere A' lidi tendea La vela di Enea. È fresca la polve Che il fasto caduto De' Cesari involve. Si crede canuto Appena air Artetìce Uscito di mano Il genere umano! 103 Tu, prima che desta Air aure feconde Italia la testa Levasse dall' onde, Tu, suora de' polipi. De' rosei coralli Pascevi le valli. 104 SOPRA UNA CONCniOLTA FOSSILK. Iliflesso nel seno De' ceruli piani Ardeva il baleno Di cento vulcani: Le dighe squarciavano Di pèlaghi ignoti Rubesti tremoti. Neil' imo de' laghi Le palme sepolte; Nel sasso de' draghi Le spire rinvolte, E r orme ne parlano De' profughi cigni Sugli ardui macigni. Pur baldo di speme L' uom, ultimo giunto, Le ceneri preme D' un mondo defunto : Incalza di secoli Non anco maturi I fulgidi augùri. Sui tumuli il piede. Ne' cieli lo sguardo, All' ombra procede Di santo stendardo : SOPRA UNA CONCHIGLIA FOSSILE. 105 Per golfi reconditi, Per vergini lande Ardente si spande. T' avanza, t' avanza, Divino straniero; Conosci la stanza Che i fati ti diero: Se schiavi, se lagrime Ancora rinserra, E giovin la terra. Eccelsa, segreta Nel buio degli anni Dio pose la meta De' nobili affanni. Con brando e con fiaccoL Suir erta fatale. Ascendi, mortale ! Poi quando disceso Sui mari redenti Lo Spirito atteso lUpurghi le genti, E splenda de' liberi Un solo vessillo Sul mondo tranquillo, 106 SOPRA UNA CONCHIGLIA FOSSILE. Compiute le sorti, Allora de' cieli Ne' lucidi porti Le terra si celi : Attenda sull' ancora Il cenno divino Per novo cammino. I ALLA CONTESSA GIUSEPPINA LAMPERTICO-VALMARANA 1)1 VICKNZA NEL SUO GIORNO ONOMASTICO 19 Marzo 1860. Quando ti miro della tua famiglia Seder nel paradiso e de' tuoi cari Fissando in volto V amorose ciglia Divinarne i pensier dolci od amari : Quando ti miro a' bei lavori intenta, D' una lampa al cliiaror, con un sorriso Costante sulle labbra e la contenta Anima tutta sfavillarti in viso ; Donna, il tuo cor ben leggo. A te soave LMnno non fora, che chiedesse al cielo Per te le perle che britanna nave Porta a fre^ifiar delle redne il velo : lOS ALLA CONTESSA LAMPERTICO-VALMABANA. 0 ti (lesse a regnar l'avventurose Isole, dove un dì fate e sirene Visser tra grotte di smeraldo ascose E fiumi che volgean d' oro V arene. Altri sono i tuoi voti. Innamorata DeMari tuoi, qual tortora che asconde Sotto le piume i pargoletti e guata Tremante, se stormir oda una fronde. Tu vivi per altrui: lieta se miri Giulivo il tuo drappello al desco accolto : Di cordoglio atteggiata e di sospiri Se sieda il duol di que' diletti in volto. Vita arcana d'amor, profondo foco Che ti divampa nell'ingenuo core, Di sante gioie consolando il loco. Ove hai regno, o gentil, regno d'amore. Cotal arde bruciando e si consuma L' incenso ; ma d' eterea fragranza Un nembo, che le quete aure profuma. Di vortici beati empie la stanza. Vivi pe' tuoi ! Come fulgor di sole Da molti specchi ripercosso intorno, L' amor tuo dallo sposo e dalla prole. Doppiando i raggi, a te farà ritorno ; ALLA CONTESSA LAMPERTICO-YALMARANA. 109 Tal che di blanda luce circonfusa, Vittrice dell' età, che discolora Crespo sembiante di beltà delusa. Tu vaga splenderai d' eterna aurora. ALLA STESSA NEL SUO GIORNO 0N03IASTIC0 19 Marzo ISfil. Ellay non viene. Il biondo capo adorno D' eterni fiori nelP eterna reggia, Agli angioli confusa ella festeggia Il tuo bel giorno ; Ma que' suoi dolci pargoli ti manda Co' novi auguri in sul inattin. Per V ore Vissute insieme al tuo materno amore Li raccomanda, E dice: o mia diletta, a' tuoi confondi I figli miei. De' tuoi baci e sorrisi. Ignari che da me vivon divisi, Vivan giocondi. ' La cognata Olimpia Colleoni-Lampertico, morta nel fd braio dello stesso anno, lasciando tre bambini all' inconsolabil sposo Fedele Lampertico. I ALLA CONTESSA LAMPERTIOO-VALMARANA. Ili Se buoni cresceranno, io del mio corto Fugace giorno non dorrommi. Oh quanto Da' que' gentili al mio Fedel nel pianto Verrà conforto ! La madre tua, che fu pur mia, tu mite Figlia sostenta. A sua giornata Iddio Gli anni aggiunga che tolse al viver mio, Viva due vite. 0 a me più che sorella e a' figli miei Madre seconda ! Agi' innocenti il riso Clii rende? Chi al lor padre asciuga il viso, Se tu non sei ? LA VEGLIA. Rugge notturno il vento Fra r ardue spire del camino e cala Del tizzo seniispento L' ultima fiamma ad a^iitar coir ala- ^O' La tremebonda vampa In fantastica danza i fluttuanti Sedili aggira e stampa Suir opposta parete ombre giganti. Tacito io siedo ; e quale Nel buio fondo di muscosa roccia Lenta, sonante, eguale Batte sul cavo porfido una goccia; Tal con assiduo suono Dall' oscillante pendolo il minuto Scendere ascolto, e prono Nell'abisso del tempo andar perduto. LA VEGLIA. 113 Più liete voci in questa Stanza fanciullo udia, quando nel verno Erami immensa festa Cinger cogli altri il focolar paterno. Morte per sempre ha chiusi Gli amati labbri. Ma tu già non taci, Bronzo fedel, che accusi Col tuo squillo immortai 1' ore fugaci, . E notte e dì rammenti, Che se al sonno mal vigili la testa Inchinano i viventi, L'universo non dorme e non si arresta. Che-son? che fui? Pel clivo l. Della vita discendo, e parmi un' ora Che garzoncel furtivo •Correa sui monti a prevenir l'aurora. Giovani ancor del bosco, [ato con me, verdeggiano le chiome ; [a più non riconosco )i me, cangiata larva, altro che il nome. Precipitoso io varco ìì lustro in lustro : della vecchia creta >a se scotendo il carco Lo spirto avido anela alla sua meta. Zanella. 8 m 114 liA VEGLIA. Non io, non io, se V alma Da' suoi nodi si sferra e si sublima, Lamenterò la salma Che sente degl'infesti anni la lima. Indocile sospira A più perfetta vita e senza posa Sale per lunga spira Al suo merigge ogni creata cosa. In fior si volge il germe, In frutto il fiore : dalla cava pianta Esce ronzando il verme Che aprii di vellutate iridi ammanta. Non quale, la rischiari Da' tuoi remoti padiglioni, o sole, Era di terre e mari Opaca un dì questa rotante mole; Ma di disciolte lave E di zolfi rovente e di metalli, Come infocata nave. L'erta ascendeva de' celesti calli. Furo i graniti, e furo I regni delle felci : a mano a mano II seggio più sicuro Fero gli spenti mostri al seme umano. LA VEGLIA. 115 Strugge le sue fatiche Non mai paga natura e dal profondo Di sue ruine antiche Volve indefessa a dì più belli il mondo. Cadrò: ma con le chiavi D' un avvenir meraviglioso. Il nulla A più veggenti savi : Io nella tomba troverò la culla. Co' pesci in mar ricetto Già non ebbero i miei progenitori ; Né preser d' uomo aspetto Per le foche passando e pe' castori. Per dotte vie non corsi Le belve ad abbracciar come sorelle ; Ma co' fanciulli io scorsi Una patria superba oltre le stelle. Or dall' ambite cene > De' congeneri uranghi il pie torcendo, Io verso le serene *laghe dell' alba la montagna ascendo. Odo presaghi suoni trascorrere pel ciel: dall'oriente )ivine visioni x^annosi incontro all' infiammata mente, IIQ LA VEGLIA. Più dolci della brezza Fragrante, che dall' ultimo orizzonte Di virginal carezza A Colombo blandia la scarna fronte. 0 di futuri elisi Intimi lampi e desideri immensi, Dal secolo derisi Che a moribondo nume arde gl'incensi, Chiudetevi nel canto Del solingo poeta, e men doglioso Fate a' congiunti il pianto Che il sasso scaldercà del suo riposo. NELLE NOZZE DELLA CONTESSA LUCIA CITTADELLA DI PADOVA COL CONTE GIULIO GIUSTI DI VERONA. LA SUOCERA AL GENERO. (Imitato dall' inglese di L. Sigouruey.j Sii pio cou lei, sii tenero e gentile, Tu che l'usignoletta al nido involi, Al pacifico nido, ove di aprile Cantando salutava i primi soli. Piange il vedovo sito e piange il ramo Donde il volo spiccò la prima volta Cade il giorno: piangendo, o la richiamo; Ma d' altri, che di me, la voce ascolta. Sii pio con lei, sii tenero : t' adora Più che il suo labbro virginal non dice: Per te Paure natali e la dimora Del padre obblìa, compagne e genitrice. 118 NELLE NOZZE DELLA CONTESSA CITTADELLA. Fresche ghirlande arrecheratti in dono D' immutabile amore ; in sulla sera Attenderà di tue pedate il suono: Mescerà teco il gaudio e la preghiera. Sii gentile con lei, quando con novi Volti dubbiosa scontrerassi: il core Fidato asilo nel tuo cor ritrovi: Fiori noi siamo che viviam d' amore. Quando senza cagion d' una secreta Lacrima le vedrai molli le gote, Pietà ne senti e le paure acqueta Al cor più forte del marito ignote. Ecco io ti cedo l'unico rubino, Che a splendere dal mio vien sul tuo petto: Traslata fiorirà nel tuo giardino La rosa eh' educai con tanto affetto. Oh, per questo mio cor rotto dal pianto, Per la memoria di Colei,* che in Dio Lieta trionfa e qui t' amò cotanto, Sii pietoso e gentil col sangue mio. * Contessa Marianna Saibantc-Giusti, la cui morte fn pian dair Aleardi. IL POETA. Siede sulP arduo sasso Pescator melanconico : nelP onda Che romoreggia al basso, Muto il poeta ad ora ad ora affonda Una sua vaga, d'attico lavoro, Temprata a lento foco anfora d'oro. Or gemma, ora conchiglia Amorosa Nereide entro vi pone. Più caro alle sue ciglia È gracil fior, che naufrago garzone Dal verde letto invia dell'oceano All' egra madre che 1' attende invano. AMORE IMMOUTALE. ( Imit. diillo spagnuolo di A. Trueba) I. Era un giorno di festa, ed ella ed io In silenzio posati alla finestra Contemplavamo il sol che vaporoso In grembo si calava alle montagne. Malinconicamente ivan battendo I nostri cori che il giocondo aifanno Già sentiano d'amore e desiosi Si cercavano. In questa ora di pace, Quando disceso ai bassi lidi il sole Lascia tepida l'aria e gli augelletti Gli dan 1' ultimo addio : tra pianta e pianta Guata furtiva la nascente luna, E per la valle tacita si spande L'argenteo suon delle piangenti squille, Com'è dolce l'amor! come favella Onnipossente air anima l le braccia AMOUE 13IM0UTALE. 121 Nel delirio de' sensi il garzoncello Cupido allarga e china il mento .al petto, Di non stringer turbato altro che il vento. Maria, le dissi, irrequieto il core Mi batte in seno. E dove un altro core Troverà che a' suoi battiti risponda? Di subitana porpora suffusa I dolci occhi abbassò la verginetta, E sovra V ale d' un sospir mi diede La sua risposta. Indefiniti, oscuri Presentimenti l'assalirò: al cielo Levò gli occhi pensosi e sorridendo Mi disse : colassù vivono i cori, Colassii si uniranno i nostri amori. IL Vissi un anno di cielo. Il nostro amore, Come r amor di due fanciulli e come Degli angioli 1' amor, era innocente E sereno. Che ebbrezza è di due cori, Di due cori commisti in un affetto, Senza vel come il nostro e senza tempo! Chi, dogliosa di lagrime vallea Disse la terra, non conobbe amore; Perchè questa di lagrime vallea A chi conobbe amore è paradiso. 122 AMORE IMMORTALE. Maria, la bella fanciullctta, un tempo Usa a correr con me per le foreste E le floride fratte, insidiando Occhiute farfallette e pigolanti Nidi di capineri e d'usignuoli; Maria, che di anni e di beltà cresciuta Con un nodo di rose il suo destino Volle per sempre al mio destin congiunto ; Maria, l' innamorata giovinetta, Mise un giorno dal cor lungo un sospiro E della vita uscì. Scesa di cielo Questa nivea colomba al primo nido Bella di affanni e d' innocenza ascese. Ne di lagrime asperse il suo cammino, Esulante ritrosa: un tale amore Colla vita non cade : amor delF alma Ptompe la pietra del sepolcro e vive Come r anima eterno ed infinito. Non mentiva la pia, quando levando Al ciel gli occhi pietosi e sorridendo Mi disse : colassù vivono i cori ; Colassù si uniranno i nostri amori. ITI. Piansi il fior de' suoi verdi anni caduto Innanzi tempo. Se la Fé mi toglie AMORE lM:\rORTALE. 123 Dal volgo degli umani, umano il core Ho pur nel petto e non ignoro il pianto, Questa pia di gentili alme fralezza. Piansi la cara vergine che volle Con un nodo di rose il suo destino Eternamente al mio destino unito; Ma provvida la Fede ad asciugarmi Venne il pianto non degno, e consolate Oggi sollevo le pupille al cielo. Morta non è V amabile compagna De' miei primi trastulli : i suoi begli occhi In me, come solca, tien fisi ancora, Ancor mi parla e della vita ai duri Affanni mi avvalora : io 1' odo all' alba Che nel prato mi chiama, e delle selve Nel vespertino murmurc 1' ascolto. Quante piaghe risana e quanto assenzio Raddolcisce, la Fé ! Sotto il balcone. Ove, il labbro tacendo, i nostri cori Si parlaron d' amor, cresce solingo Un fiorellino, di sua casta mano Antica cura. Or ella messaggero Dell' amor suo s' è fatto il fiorellino Ch'ogni dì mancia a salutarmi e dice: Non ti scordar di me, mio dolce amore. Ch'io mi scordi di te? rispondo, e gli occhi Mi vanno al ciel di lagrime velati. Morta non è la vergine che assisa 124 AMORE immortali:. Meco al balcone un dì di festa, il volto D'onesto foco imporporata, al cielo Levò gli occhi pensosi e sorridendo Mi disse: colassù vivono i cori; Colassi! si uniranno i nostri amori. L' ADOLESCENTE. (Imitato dallo stesso ) I. Ha quindici anni, e l'anima s'inforsa Come nomarlo. Lo diran fanciullo 0 giovine 1 miei canti? Angelo o creta? Che le tempeste de' maturi giorni Già gli ruggono in core, e l'innocenza Virginali fragranze anco vi spande. Vedi con quanta tenerezza al collo Della madre si avventa, e volto il capo Guata ad un'ora timido e confuso La cara treccia giovanil che spunta Là fra i roseti del giardino. Ignora Qual sua gloria sarà; ma della gloria Già l'infiamma il pensier: non sa che brami. Ma di fervide brame un incessante Affollar lo combatte. Oh, se disciolta Gli fosse la catena! oh, se potesse 126 li ADOLESCENTE. Coir aquila levato oltre que' monti Batter l'ala a più liberi orizzonti! li. Al rezzo delle piante, in sul tappeto Molle dell'erbe romoroso coro Tripudia di fanciulli, a cui due lustri Ridono appena sul vermiglio viso. Lì son vividi fior, limpide fonti E cantanti usignuoli : aerea volta Tesson gli opachi rami, onde lampeggia Tremolo il sol eh' all' occidente inchina. Ma di fiori, di fonti e d'usignuoli Al fanciullo non cai, che li calpesta 0 gV intorbida o scaccia, e sulF occaso Spegnersi lascia inosservato il sole. Silenzioso dal materno collo Si spicca il giovanetto e delle piante Nella cercata oscurità s'aggira. Fiori, fonti, usignuoli, avvolte frondi E purpurei tramonti al cor gli danno Ineffabil dolcezza: ode una voce Dall'univèrso uscir, che non compresa Pur nell'alma gli suona e l'innamora; Che ad altri mondi lo solleva e questo, Pur gli fa benedir dove dimora. I l' adolescente. 127 Tal de' mobili regni hanno confine Infanzia e giovinezza ! Ha picciol' alma Lieve, incostante il fanciulletto : ardenti, Smisurati fantasimi al garzone Affaticano il core. Oh, se disciolta Gli fosse la catena! oh, se potesse Coir aquila levarsi oltre que' monti Navigando a più liberi orizzonti ! III. Ma che vuoi, dell' infanzia il limitare Valicato, che vuoi, bel garzoncello? Che sogni sono i tuoi? Sogni la gloria. Sogni l'amore? Tu noi sai. Sull'erba Steso neglettamente all' accerchiante Ampia giogaia delle tue montagne Giri lo sguardo e di veder le mura Di una career t' avvisi. A più diffuso Lume di soli, a più largo aere aperto Alle fughe dell'ala infaticata Bramosamente aneli, e ti dibatti Contro i tuoi ferri insanguinando il petto, Giovin falco mal domo. Io non ti chiedo Che sia l'amore: tu l'ignori. Il lampo De' neri occhi ti piace o degli azzurri ? Candida o bruna è la beltà che segui 128 l/ ADOLESCKNTE. Tacendo e disiando? Ami la rosa Anco nel verde calice ravvolta, 0 di sue pompe in sul meriggio altera? Tu noi sai: ma noli' anima indistinto T'arde un desìo d'amor, che di bei volti Fuggitivi ti popola le valli D'immaginati elisi. Oh, se disciolta Ti fosse la catena! oh, se potessi Coir aquila volando oltre que' monti Profondarti a più liberi orizzonti! IV. Batte alle porte del futuro indarno Il timido garzon, che di sua vita Il certo corso ed i gran fini ignora. Altro ei non sa, se non che vago, arcano. Di battaglie foriero e di trionfi Un desìo lo divora e lo sospinge Ad ardua meta. Ei sa che a sommo i cieli Non isfolgora il sole, occhio del mondo. Perchè delPuomo illumini i codardi Ozi e le pompe inutili e la tomba Che spregiato P inghiotte ed incompianto Pur dagli occhi de' suoi. Sente che il core Ha bisogno d'un core, in cui riversi I segreti suoi pianti e le speranze; m^ l' adolescente. 129 Che con se lietamente alle fumose Mura ripari di un tugurio e scorga Nelle canne la porpora ; che 1' ami D' un amor, qual de' teneri poeti Spira negP inni e mai non vide il mondo. Cotal vaneggia il giovincel che al collo Della madre si avventa, e volto il capo Guata ad un'ora timido e confuso a cara treccia giovanil che spunta Là fra 1 roseti del giardino. Angusta Gli è la valle natia : d' aria, di luce Fiera sete lo strugge. Oh, se disciolta Gli fosse la catena! oh, se potesse Coir aquila levato oltre que' monti Batter 1' ala a più liberi orizzonti ! Zanella. IL TAGLIO DELL'ISTMO DI SUEZ. Nella terra del sol, donde fanciulla Uscia r umana schiatta a' lunglii esigli, Tornan giganti a riveder la culla Gli sparsi figli : Tornano di arti e di scienze adulti A' favolosi regni, ove pe' fiumi, D' azzurro fior nella corolla occulti Scendono i numi. Batte alle porte de' sopiti imperi Mattutina 1' Europa : il desto Egitto Per r alte sabbie agevole a' nocchieri Apre tragitto. Un' altra volta Iddio suir P^ritreo Guida i popoli suoi ; non come quando, Sceso ne' flutti, il fuggitivo Ebreo Scampò dal brando ; I I IL TAGLIO dell' IST3I0 DI SUEZ. 131 Ma sulle prue pacifiche seduto Che ghirlandate d' innocenti allori Portano all' opulento Indo tributo D' arti migliori. 0 sepolto in tue caste e del tuo rito Popol tenace, che ad antiqui mostri Giganteggianti in eternai granito Muto ti prostri, Teco noi fummo una famiglia. Erranti Appiè dell' Imalaia V idioma Teco parlammo, che passò ne' canti D' Atene e Pioma. Poi col sol divisando il nostro calle Noi partimmo le tende. Al mezzogiorno Tu scendesti, e d' ór lieta immensa valle Fu tuo soggiorno. Fiero scendesti; e di lioni alati E d' elefanti, eroico pellegrino, I porfidi lasciasti effigiati Nel tuo cammino. Ma di molli riposi il clima amico, Le olenti selve e la spontanea mèsse Franser tua possa : all' ardimento antico Ozio successe. 132 IL TAGLIO dell'istmo DI SUEZ. Noi futuri del mondo agitatori Air occaso moveinnio. Il cielo avverso, E sterile il terren, se di sudori Pria non asperso, Destar 1' insita fiamma. Alla natura Noi contendemmo il pauroso regno ; E bello di costanza e di sventura Fulse l'ingegno. Austera dea, necessità le menti Di vero in ver per ardua via sospinse : Co' facili commerci in un le genti Il mare avvinse. Sursero imperi e disparir : coverse Barbara notte i rai d' ogni dottrina ; Ma civiltà rifolgorando emerse Dalla mina. Or lieta della Fé, che in un amplesso I suoi possenti popoli comprende. Verso il cheto splendor di un dì promesso Europa ascende. Vieni a vederla! Assisa in sulle soglie Dell'oriente e di superbe sorti Italia consapevole t' accoglie Entro a' suoi porti. IL TAGLIO dell'istmo DI SUEZ. 133 Rugge dell' Adria il sollevato flutto Al passar della prora ardimentosa ; E l'anel, die celò fido nel lutto, Rende alla sposa. Vieni ! Dell' aureo Gange i doni apporta Al severo occidente, e gli estri antichi In noi colla gagliarda aura conforta Del tuo Valmichi. Noi di compasso armati e di quadrante A' tuoi lidi verremo ; e fia 1' oltraggio Ulto del vero e le catene infrante Del tuo servaggio. Quando sotto le palme e fra gli amomi Noi moveremo insieme ed alla folta Ombra odorata insegneremo i nomi D' Humboldt e Volta. LA RELIGIONE MATERNA. Dall' oriente ascoso Entro notturne bende Per calle avventuroso Un pellegrino ascende, A cui fedel lucerna Die nel partir la carità materna. È r orizzonte oscuro, Incognito il cammino : Pur a que'rai securo Ascende il pellegrino Verso la patria ignota. Che scorge in fondo all' avvenir remota. Ma candido barlume Già rompe in ciel : vacilla E si scolora il lume Dubbioso alla pupilla Del viator, che a stento Anco il ricopre colla man dal vento. LA EELIGIONE MATERNA. 135 Più del cammino acquista, E pili nel sol die nasce, L'avvalorata vista Maravigliando ei pasce ; Già r umil lampa obblia. Al cui santo splendor prese la via. Sul mezzodì procede, E nel chiarore immenso Spenta la lampa ei crede, Perchè velata al senso. Folle credenza ! Eterno Vive il ricordo dell' amor materno. Al termin del sentiero Sale a ponente un monte. Il sol declina: in nero Si tinge r orizzonte. A tremolar distinta Torna la fiamma ch'ei credeva estinta. Torna il bel raggio, e torna Lontana ricordanza D' una chiesuola adorna, D' una solinga stanza. Ove materna fede La lampa accese che al partir gli diede. ^36 LA RELIGIONE MATKKNA. Sereno avanza il passo Per r aria tenebrosa, Finche su breve sasso Stanco la lampa ei posa ; Posa attendendo il messo. Che lo rinnovi nel materno amplesso, TIMOSSENA. IDILLIO. I. Fra r ombre degli eroi teco a severi Colloqui assise e le recenti grazie e Di carissima donna aurei, Plutarco, ^ Correvano i tuoi dì. Nelle gioconde Piaggio di Clieronea teco cresciuta La bella Timossena idalie rose Avvolgeva al tuo crin grave di lauri Apollinei. Ridendo il capo alzavi Dalle pagine tue, quando furtiva. Il pie sospeso e l'indice sul labbro, Quella gentil nelle tue stanze entrava. Pari a luna nel bosco. E la tua tazza, Traboccante di mei, di assenzio infusa Mai non avrebbe Amor, se di litigi Iln dolorosi labirinti avvolto 138 TI3I0SSENA. Segreti odi spargendo e di contese Sollevando gran fiamma. In due divisa, Figlia ancor vereconda e sposa amante, Gemea la donna e paurosa il guardo A quelle fronti ergea rannuvolate, Qual se guizzante vi scorgesse il fulmine Di ruine foriero. A tarda notte Mai prima non udì rieder lo sposo, Che nuda il piede coni' era e disciolta Le bellissime trecce ad incontrarlo Non accorresse e di domande e baci L'assalisse. Tremava or del ritorno, Come d' ospite ignoto il passo udisse Ascendere le scale. Invan dal core Provossi cancellar le ricordanze De' suoi giorni infantili e di altro sangue Credersi nata e d'altra casa uscita; Che corrugata la paterna immago Risorgeva ne' sogni a rinfacciarle Il codardo pensier. Sola sedea; E di nascoso pianto gli origlieri Inondava del talamo. Una notte Piangendo si addormì. Le parve in sogno Un gran monte veder ; a' fianchi attorta Serpeggiava una via di lauri ombrata E di candidi marmi. A lei del monte Prender pareva la salita ansando E trafelando al cominciar; ma lieve, TI3I0SSENA. 139 Come se un'aura la levasse a volo, Sentìa farsi il cammin, quanto dell'erta Più guadagnava; e dileguar 1' affanno E serenarsi il cor, tosto che un' ara Agli occhi le s' offrìa fra i mirti ascosa, E coir arco alle spalle il simulacro Dell' immortale Amor. Destossi all' alba, E fra mesta e fidente appresentossi Allo sposo : « Se mai stilla di dolce Da me, Plutarco, avesti e non del core Tutta uscita ti son, questa preghiera Mi adempì, gli dicea, che un Dio m'ispira, Provvido, immenso, onnipossente Iddio , Cui Siam cari ambedue. Sull' Elicona Non è sol delle Muse il santo albergo 'E la reggia d'Apollo: anco all'Amore Vi sorge un'ara, a cui venir son use Le tebane fanciulle e di colombe Vittime offrir, se nel garzon diletto Veggon per caso intiepidir la fiamma Che altra volta lo ardea. Fedele amica Sovente mi narrò, che coli' aita Graziosa del nume il cor riebbe Dell'amante; e di spose e di mariti Dopo lunga tenzon pacificati Corron storie mirabili. Domani roviam colà: si adunino i parenti 140 TIMOSSENA. Porger sull'ara anch'io mie libagioni Per salute del cor, clic sanguinente Porto in sen da più lune e ben tu '1 vedi. » Della donna sull' omero la destra Posò Plutarco intenerito, e gli occhi Pregni di pianto in lei fissando, il giuro Le rinnovò del non cangiato affetto Per cangiarsi di tempi. « E se ti amai, Soggiungeva, dal di che sul mio seno Keclinasti il bel capo, e di tua vita Mi affidasti il governo; e se potesse Crescere l'amor mio, ben più diletta Or saresti al mio cor, pur come gemma Tratta dal fondo di turbati mari, Che più cara risplende. I dubbi acqueta, 0 mia soave desolata: intero Il tuo regno rimane. E nondimeno Se ti piace così; se tanto speri Nella possa d' amor, domani all' alba Andiam sulP Elicona ; e gli aurei nodi, Ch' ira di parti rallentar non vale, Novamente pregato Amor confermi. » TIMOSSENA. 141 IL Di inaltutina nebbia ancor velate Le falde eran del monte, e non veduto Già le sue cime illuminava il sole. Con lungo mormorio di giogo in giogo, Di vallone in vallon sciogliea le chiome La divina foresta a ber la pioggia Del vitale splendor. Lenta saliva La bella compagnia per torto calle. Ora al sol discoverta ed or nascosa Dietro i fianchi del monte. Il lungo velo Di Timossena fluttuando addietro Si portavano l'aure. In volto impresso Ella del core lo scompiglio avea:. Pur quella festa del creato: i fiori Di rugiada stillanti: l'usignuolo Ch' impaurito abbandonava il nido Al suo passar: di Copa il lago a manca, Il Parnaso a diritta e trasvolante, .Con teso collo, altissima ne' cieli La gru smarrita che le sue compagne Sull'Emo iva a trovar: cotanto riso Della terra e del ciel di muta gioia Colpìan la pellegrina. A lei Plutarco Di Ascra il fonte additava e sculto in bronzo Il poeta de' Giorni, a cui le pecchie 142 TIMOSSEXA Ancor sul labbro deponeano il mèle. Poi di Lino il sembiante e di Tamiri All'arpa infranta e alle pupille spente Raffigurava; e proseguia narrando Vetustissime età, come di Tracia Scesi i primi cantori all'Elicona Venner raminghi, ed al virgineo coro Il laureto sacraro e le fontane Ignote ancora. « Di qua mosse il canto Che simile, dicea, d' eolia lira A lontano concento; o come quando A poco a poco il mar s' increspa e bolle Con crescente romor, pe' continenti D' Eliade immenso si diffuse, e l' inno Omerico destò sul!' altro lato Dell' Ellesponto. » Tal parlava; ed ecco Al piegar della via 1' antro di Apollo, E coir ellera al crin Bacco e Sileno Barcollante nel marmo. ^ All' antro appesi Eran timpani e trombe; e sulla soglia Quinci Pindaro e quindi il coronato Di asiatiche rose Anacreonte, A cui sull'arpa con calati vanni Dormiva una colomba. Immoto il guardo L' ansia donzella vi tenea ; ma 1' alma Le vagava pel bosco. E già de' lauri Yedea fra l'ombre biancheggiar nell'alto Il tempio delle Dee: già d'Aganippe I TI3I0SSENA. 143 L' onda diffusa lidia romoreggiante Scendere a valle. Alla gentile un gelo Or le vene stringea, come al cospetto Di paventata deità. Si avanza Ove un boschetto di mortelle adombra, E vede la sognata ara ed Amore Stante coir arco e la farètra. Il volto Si cangiò della donna: al pie le scese In dilatata maestà la veste, E parve maggior farsi e più che umano Della sua voce il suon. Pose V incenso Appiè del nume: si scostar gli astanti In tacita corona. Or mentre 1' aura Rapìa stridendo le odorate nul^i Che ricadean bianchissime sul bosco. Ella infocata i rai, sparsa le chiome, E le labbra tremanti, « 0 di natura Primo sire, sclamava, o delle cose Possente innovator, cui V ansie madri Del casto bacio della figlia orbate Adorano piangendo, odimi, Amore, Poiché sacra ti son. Non io t'invoco Quale suir are di Corinto infami Discinta la venal sacerdotessa ' Forsennata t' implora. Eterea possa Che r universo trasformando avvivi. Te chiamo, inclito Dio, che l'ali d'oro Sovra r orme del tempo aftaticando Ili TIMOSSENA. Le ruinc fecondi, e nelle sciolte Ceneri allumi V immortai tua lampa. Perocché, quanto vive, inesorata Discolora vecchiezza e morte atterra Con lenta pugna. E non pur erbe e piante, Ma lo stesso del sol splendido cerchio A poco a poco con assidua lima Logora il tempo. E già voto deserto Forano i campi, senza f rondi il bosco E senza canto, se le vecchie stirpi Non ricreassi. Amor, co' destinati Connubi; e dopo il verno alle campagne Xon rimenassi co' fecondi nembi L' alba di primavera. A\ moribondo Calice delle rose il germe involi. Che i vedovati cespiti rinfiora; E colla piuma, che cadea dal fianco Dell' annosa cicogna, il chiuso nido Al tremebondo cicognin riscaldi. Voli fra gli astri; e de' pianeti estinti Ventilando la polve a' giovanetti . Soli prepari le purpuree cune. Come rotante turbine procedi Novi lacci stringendo e lacci antichi Kallentando ; è la sera alle tue spalle; E l'astro del mattin le chiome accende Nella tua lampa. Ecco io ti seguo. Amore, Alleggerita de' vetusti nodi ; TI3I0SSENA. 145 E le sante tue leggi, a cui s' inchina Tutto il creato, lietamente adoro. » Tacque la donna. All' ispirato accento Stupir gli astanti: ma d'un vecchio lauro, Che sull'altare protendea le fronde, Poggiato al tronco in dolcissimo pianto Segretamente si seiogliea Plutarco. Zanella. 10 NELLE NOZZE DI UN AMICO DOTTORE. Due sole rose, tu dicevi, in questa Misera valle io colsi : una il mio core Beava il giorno che quiete onesta Successe al lungo giovanil sudore. L' altra il giorno che salse alla mia test. Il ramoscel di dotte fronti onore ; Queste due rose io colsi ; e non mi resta Da sperar sulla terra un altro fiore. Sorrise il cielo che i pensieri umani Volar non lascia, e con opposto effetto Par che goda mostrar come sian vani; E questa leggiadrissima donzella Ti trasse a fianco, che contro il tuo detto D' eterne rose la tua vita abbella. IL SONNO. Odo d' api pascenti Un confuso ronzio : Al bosco un mormorio Odo di chiusi venti. Ebbra V anima nuota : Alla pupilla incerta Si scolora la nota Sulla pagina aperta. Veggo ombrose campagne E solitari seggi : Passan pastori e greggi, Passan laghi e montagne. Per insensibil china Entra sotterra un fiume, Che lento mi trascina Suir obbl'iose spume. 148 11^ SONNO. Dcir antro in sulla porta Lascio r elmo e lo scudo, E mi commetto ignudo A tenebrosa scorta. Pende ignava la mano : Vacillante e sopita Ecco afferra uno strano La lampa di mia vita. Pari alle morte fronde Che per cieco cammino, Se il grido è ver, V Eusino Manda del Caspio all'onde, Verso la nova aurora Pe' silenti canali, Che il sol mai non esplora, Nuotan meco i mortali. Lasciò r aurato manto Il tiranno sul trono, Xè schifo ha del colono Che gli remiga accanto : Al monaco il soldato Sul collo un braccio posa : Van, come cigni, allato Torquemada e Spinosa. IL SONNO. 149 Del superbo pensiero Le vele ripiegate, Sotto le ciglia il vate Trattien V ombre del vero. Che è? Lieve col braccio Sospingo un uscio eburno, E tranquillo m' affaccio A un mondo taciturno. Rosea luce discende Da tutto r orizzonte Più marina, né monte Il passo non contende. Coronati di palma Sugli opulenti piani, Presso al ricolto, in calma Meriggiano gli umani. Sacro agli oscuri eroi, Che col sangue e V ingegno Il fratellevol regno Maturarono a noi. Sorge un tempio : co' doni Saigon da' quattro venti, E sugli alti scaglioni S' inginocchian le genti. 150 II' SONNO. La man Bianca e la Nera Stringon d' amore il patto : Segnale del riscatto Sventola una bandiera; E come tuon si spande Sovra i mari una voce: « Cristo risurse: grande Regna omai la sua Croce. » Trasalendo mi desto. Ah, perchè farsi oscuro Veggo il divin futuro Ne' sogni manifesto ? Perché, se V ombra agguaglia Tutti i nati d'Adamo, All' antica battaglia Col novo sol torniamo? Perchè riprender gli odi Col riprender de' panni? Perchè schiavi e tiranni Gareggiar d'asti e frodi? Pari, quando la testa Chiniamo in su' guanciali, Se la ragion si desta Più non saremo eguali? IL SONNO. 151 A più lontana spiaggia, Per via men conosciuta, Frettolosa la muta Del tempo onda viaggia. La sconsolata riva Ombran foschi cipressi: Aprii mai non ravviva I gelati recessi. Là degl' imi e de' grandi Rompono le fortune: Sulle temute dune Giaccion porpore e brandi: E r anima soletta, Simile a pellegrina Che a tergo il nembo affretta. Verso altro ciel cammina. SOTTO UN RITRATTO. Foefa. Che fate assisi a pie dell' arboscello Dolce sorella, tenero fratello? Perchè la solitudine, o fanciulli. Preponete de' lieti anni a' trastulli ? Fanciulli. Altro noi non sappiam fuor che secura Vive innocenza in grembo alla natura; Che pòn soltanto le colombe, i fiori Qualche immagine offrir de' nostri amori. ORFANI ENTRAMBO ! I PER NOZZK Orfani entrambo ! alle tue cliioine il velo^ Sposa gentil, la madre non avvolse, L' angelo tuo, die in un col padre il Cielo Sordo ti tolse. Né te, garzone, all' ara benedetta Festanti accompagnaro i genitori. Tacita s' apre la magion soletta A' novi amori. Orfani entrambo! I vostri sguardi erranti Si scontrar desiosi : in un sol volto. Quanto morte toglieva a' cuori amanti Vider raccolto. Tu d'indomato affetto e di consiglio A lui madre sarai, viril donzella. Onnipossente di un leggiadro ciglio È la favella. 154 OUFANI ENTRAMBO. E tu, fido garzon, con man paterna Lei guiderai pel ripido cammino. Sta nella fé che le giurasti eterna, Il suo destino. Felici, se col volgere degli anni Insieme assisi in solitaria parte, E rileggendo de' durati affanni Memori carte. Potrete dir: fosser que' giorni ancora! — Per te, mio caro, ancor tale sarìa! — Con crescente delirio il cor t' adora. Diletta mia! I LE NUOVE GENERAZIONI. ALLA SIGNORA ANGELA LAMPERTICO. Grigia d' un dì nevoso Per le vetrate tralucea l' aurora ; E de' servi il drappel silenzioso Salìa le scale della tua dimora. In altra stanza i panni -, Gai e le perle nascondean le ancelle : Tu solitaria di compressi affanni Volgevi in cor terribili procelle. Al suol, sovra tappeto Vario di belve e d'intrecciate fronde A' piedi tuoi ruzzolavano in lieto Clamor tre bimbi dalle teste bionde; Né sapean che portata A freddo avean ricovero lontano La dolce madre ; e che di là chiamata L' avrian col grido e coi singulti invano. 15G LE NUOVE GENERAZIONI. Donna, per te la ruota Dogli anni addietro si rivolge: accanto Di tre cune ti porta e sulla gota Piover ti fa di tre bambini il pianto. Non lungi oniai la meta Vedevi biancheggiar di tua carriera; A sommo V arco riposavi ; e queta D' ombre e di lume ti avvolgea la sera. Di un operoso giorno Le memorie eran teco; e sul tuo figlio Già di civico lauro i crini adorno Muto volgevi e gloriante il ciglio. Donna, discendi al fondo Altra fiata: gli orfanelli prendi Sovra il tuo seno, e col gravoso pondo L' erto dirupo un' altra volta ascendi. Crescan per te gentili, Crescan pensosi e forti : alle future Schiatte di noi piìi sane e più virili Chiede Italia la fin di sue sventure. Noi d'obliose paci Logoro avanzo e di stranier flagello; Ebbri di fiel ; di Giuda avvezzi i baci A temer nell'amico e nel fratello: LE NUOVE GENERAZIONI. 157 Noi d' improvviso al regno Surti di tombe, a ringoiarne aperte, Folla larvai, tumultiiosa il segno Seguiam di libertà con orme incerte. Altri, in sé chiuso, il grido Della patria non ode ed in tempesta Veder V onde desia, purché sul lido A' naufraghi arraffar possa la vesta; Altri de' pochi irride A' magnanimi intenti e la ferita. Fatta quasi mortai che fuma e stride. Sul sen materno sogghignando addita : Scorati tutti e servi Della vana di un giorno aura che i forti" Nella mota travolve e de' protervi Fida alla man d'un popolo le sorti. 0 giovinetti, o speme Di più sincere età, se di leggiadri Studi e di fatti nobiltà vi preme. Unico esempio non chiedete a' padri. Fra '1 bando e la catena Messi, di notte, con erculeo stento Noi r opra alzammo ; ma con rotta lena Or n'accasciamo appiè del monumento. 158 LE NUOVE GENERAZIONI. Voi di alma e forze interi ; Voi non dal dubbio e daMitigi affranti, A cui r orrenda servitù di ieri Spettro già pare che sognaste infanti, Le pristine ghirlande Della patria sul crin ricomponete: A voi la consegniamo armata e grande: Abbia leggi da voi, gloria e quiete. Gli avi remoti, oscuro Popolo di fuggiaschi e di pastori, Fero assai più, quando cangiando il duro Vomer nel brando e ne' cruenti allori, Tolsero all'umil cuna Italia pargoletta e sovra soglio Olimpico, maggior della fortuna La locare col Fato in Campidoglio. Ne tutti i iigli accolti Sotto un vessillo, come voi, vedea Questa gran madre, ma squarciata i molti Tiranni e le fraterne ire piangea. Quando Vinegia a' regni Veleggiava del sole; e le ruine Di Argo e di Atene sui pisani legni Veniano a ravvivar Farti latine. LE NUOVE GENERAZIONI. 159 Italo garzoncello Sul suo destriere valicava i monti; E cingean l'elsa del valore al bello Italo cavalier donzelle e conti. Inerme, oppressa, il raggio Di civil costumanza e di dottrina Italia al mondo accese, e nel servaggio Air irto vincitor parve regina : Se libera e robusta Ella è minor del racquistato impero, Non gettiamo oltre l'alpi accusa ingiusta, Ma sia nostro col danno il vitupero. I L' ALCIONE. Al noccliier dell' xVrgolicle che il fine D' ingrati ozi saluta e si dispone Correre i porti dell' egee marine, Dolce la melanconica canzone Sciogli, 0 vago augellin, che lungo 1 lidi. Già serenati, alla miglior stagione Sui musclii e le natanti alighe i nidi Pensili intessi e li accomandi ai mari Che tante volte hai pur trovati infidi. Anche appiè del Vesuvio i casolari Atterrati ricerca e pon le mura Forse sulle ossa di sepolti cari, 11 villanel che piìi gagliarda cura xVvvince al suol che nascere lo vide E più sacro gli ha fatto or la sventura. l' alcione . 161 Piano, come cristallo, il mar sorride; E tu sovresso il nido e della spuma Poco curando che il tuo dorso intride, Con occhio immoto e con immota piuma Osservi il pesciolin che V esil testa Riscalda al sol che il pelaghetto alluma. Mite Alcióne ! Te solinga e mesta Di scogli abitatrice i naviganti Dissero un giorno : e te della tempesta Chiamar foriera di Parnaso i canti €he del nembo ti dier mente divina, Yedovil gonna e di un mortale i pianti. Perocché .della florida Trachina Presso il maliaco seno e la pendice Òetea ti cantavano regina Di porpore e d' immenso oro felice; Ma che nullo tesor ti fu più caro €he gli occhi vagheggiar del tuo Ceice. Ben le ginocchia un dì ti vacillaro, E tramortita reclinasti il collo, l Quando il tuo sposo navigando a Claro Zanella, Il 102 l' alcione. Per consultar gli oracoli di Apollo, Al tuo cor si togliea che anco non era De' primi baci d' imeneo satollo. Sciro aveva trascorso ; e già si annera Il ciel tutto e fracassa arbori e prora Di traverso ruggendo la bufera. Ceice colla gente il mar divora, Ceice che con labbra moribonde Alcione, Alcìòn chiamava ancora. Son deserte le sale un dì gioconde D' inni e di danze. De' suoi fati ignara, Pur accorata Alcione le bionde Chiome discioglie e di Giunone all' ara D' inesaudita lagrima cospersi Doni tributa; e di sua man prepara Bello di seta e di color diversi Per le membra dilette un manto adorno, Per le membra che a' mostri esca già fersi. Già due fiate rinnovato il corno Avea la luna, e la dolente a Giuno Chiedea con raddoppiata ansia il ritorno l' alcione. 163 Di Ceice che intanto lungo il bruno Di Lete fiumicel colà movea Onde si nega che ritorni alcuno. Allor dello stellato etra la Dea Commiserando i lai delki donzella Che pianti e preghi inutili spargea, A se r alidorata Iride appella E, Vanne, dice, alla magione ombrosa Vanne del Sonno, o mia fidata ancella; E dilli che 1' immagine dogliosa Appresenti del naufrago consorte A quella abbandonata e non più sposa. Iride entrò le tenebrose porte. Al repente fulgor eh' empie la grotta, De' lievi Sogni fluttua la coorte. Che riversati, svolazzando in frotta Senz' altra voce che il fruscio dell' ali, Fuggon tremando ove ancor 1' antro annotta. Co' papaveri al crin, sovra guanciali Oscuri più dell' ebano sbadiglia Il domator de' numi e de' mortali. 164 l' alcione. Che sollevando le gravose ciglia E sovra il sen ricadendo col mento, Tende V orecchio alla taumanzia figlia. Tu dormivi, Alciòn; ma tratto a stento Il tuo respir gemea ; dall' egro aspetto Traluceva dell' anima il tormento. Ed ecco appiè del doloroso letto, Squallido, ignudo, ma col suo sembiante Starsi, orribile immago, il tuo diletto. Di verde acqua la barba avea stillante. Stillante il crine: il labbro illividito; Tumida V epa e tumide le piante. Or che dirò come correndo al lito E sovra 1' onde galleggiar la spoglia Mirando dell' esanime marito, Ella cieca d' amor, cieca di doglia Si perigliava in mar? Come la Diva Cui di fiori solca cinger la soglia, L' agii omero di ali le vestiva E le donava 1' amorosa nota Che fa de' mari risentir la riva? l' alcione. 165 È pur dolce all' argolico pilota Che fra l'isole egee drizza le vele, Quando sull' alba è la marina immota, Salutar le costiere, a cui fedele L' aura dell' Ellesponto ancor ripete L' ardente inno di Saifo e le querele. Dolce è pur torsi ad un' età che sete Sol ha di lucro e fredda intende al vero; E seguir 1' ombre dilettose e liete Che a' spenti lumi sorridean di Omero. I I GENITORI ALLA SPOSAI PER NOZZE. 0 superstite al nembo, unica rosa Di orto sfiorito! Impaziente all' ara Altri ti chiama ed air ambita sposa Serti prepara. Ghirlande a noi non chiedere ne canto, Indizio, 0 figlia, di giocondo affetto. Ben sai da quanti soli abiti il pianto In questo tetto. Figlia, tu parti. Nella nova stanza Reca le grazie dell' ingenuo viso ; Resti a' tuoi genitor la rimembranza Del tuo sorriso. Pochi anni innanzi èra morto 1' unico fratello della sposa. I GENITORI ALLA SPOSA. 167 Diletta, addio. Noi muti e solitari A te pensando affretteremo i giorni Che di un tenero pegno a' vecchi lari Bella ritorni. Dolce il pianto sarà, se con quegli occhi E con quel volto sì pensoso e bello Redivivo ci ponga in sui ginocchi Il tuo fratello. I NATURA E SCIENZA. Come ritrosa vergine t' involi, Discortese natura, al guardo umano, Che pel lento mutar di mille soli Di cielo in terra t' ha cercata invano. Con giocondo terror vide talvolta Balenar dall' abisso il tuo sembiante ; Ma tosto di pili nere ombre ravvolta Scese la notte sul deluso amante. Ne' meandri di tacite spelonche Chiusa intanto, al gocciar cheto delP acque, Di opaline piramidi e di conche Gracili vezzi fabbricar ti piacque. Nitido specchio e virginal collana Di agate ti polivi e di cristalli. Che poi vaga e fantastica sultana Franti gettavi alle sopposte valli. NATURA E SCIENZA. 169 Troppo scherzasti, improvvida gelosa ! Lo sprezzato cristal V uomo raccolse, L' occhio armandone ; e te non sospettosa Dietro la tenda ad osservar si volse. Or ti appiatta, se sai! Splendido, immoto. Pari a luna, che subita si scopra Tra nube e nube al vigile piloto. Quel grande, infaticato occhio t' è sopra. 0 che ti posi d' assetata foglia Entro le celle e con materne dita Alle provvide stille apra la soglia, Che r alba manda a rinverdir la vita ; 0 che nel chiuso calice de' fiori Segua il cader della feconda polve ; 0 che nutra, o che plasmi, o che colori, Fiso queir occhio dietro te si volve. Innanzi ad esso, come tronco pino, riganteggia il capello ; e come mare Limpidissimo al fondo e crictallino, iCo' mille abitator la goccia appare. Quante in que' flutti immagini di morte ! Quante fughe e vittorie! In fiera danza Deir universo affacciasi alle porte Rude la vita e dolorando avanza. 170 NATURA E SCIENZA. Tutto muore e rinasce. Iiivan, natura, Ne' mutabili aspetti a noi ti celi ; Ti tradisce la larva, e non ti fura Al nostro sguardo immensità di cieli. Sali tra mondi e mondi, e non t' avvedi, Che di una lente armato agli Orioni Questo atomo pon freno ed in sue sedi Traduce, ospiti immani, ladi e Trioni. Dal novissimo ciel la nebulosa Scopre di soli tremola famiglia. Quale fiammante del color di rosa, Qual tinto nel pallor della giunchiglia. Mille sfere nel rapido viaggio Lasciossi addietro, e son mille anni e mille, Che piove pel silente etere il raggio Pur or giunto dell' uomo alle pupille. Di lassù che ne porti, o messaggero, Per tanta via? Se di metalli infusi In bollente oceàu parli al pensiero, E dell' astro natio la tempra accusi ; Se per V alto universo intatta via Al voi dischiudi dell' umano ingegno, Fuggou forse le tenebre di pria, E palese di Dio splende il disegno ? NATURA E SCIENZA. 171 Tante luci che fan ? Che fanno i mondi Che, come faro d' ignorati porti, Ora scemano fiochi e moribondi, Or con vividi incendi ardon risorti ? Donde e quando si mosse? A quali prode Veleggia V universo ? Alme viventi Albergano lassii? Liete di lode Air eterno Valor sciolgon concenti? Muore la lampa, e scuro un vel si abbassa Sullo sguardo dell' uom, che sbigottito Scorge per entro V ombra Iddio che passa Novi soli a librar nelP. Infinito. NELLE NOZZE PORTO-PIOVENE PI VICENZA. A NOME DELLE COGNATE LUCHESCHI, REALf, CALBO-CROTTA, NATE PORTO. ALLA SPOSA. Nella stanza materna, a cui V affetto Di ardente sposo un giorno ne togliea, Entra, o leggiadra, e del vedovo tetto La mesta solitudine ricrea. Noi dal nativo cespite divise Sotto altro cielo abbiamo le dimore: Ivi de' nostri amati al fianco assise Ore viviam dolcissime d' amore. Beate appieno, se segreta cura Di lei non ne pungesse ad ora ad ora, Di lei che sola nell' antiche mura In noi si affisa tutto giorno e plora. *l NELLE NOZZE POKTO-PIOVENE. 173 0 madre! Alla gentil, che al braccio unita Di Antonio tuo, tra lieta e pudibonda Ti viene innanzi, ed altra alla tua vita Apparecchia di fior mèsse gioconda, Sorridi! Apresi 1' alma e meno amara Fassi a noi lontananza, or che le ciglia Schiudendo al giorno, a te dallato, o cara, Ancor vedrai sorriderti una figlia. I TERESA BARRERA-FOGAZZARO DI VICENZA ESULE COI-LA FAMIGLIA DAL 1859 NEL SUO GIORNO ONOMÀSTICO IN Oria sul Lago di Lcgaxo 15 Ottobre 186L Rapido ardente pellegrino all'onda Del tranquillo Ciresio il cor viaggia, Ove di notte una magion gioconda Vivo chiaror di spesse lampe irraggia. Sonar V intima stanza odo di liete Voci : già ferve V ospitai convito ; Volan gli auguri; un nome si ripete Al mio cor quanto noto e riverito ! Aprite, alme gentili, al pellegrino Dall' ancor serva Italia a voi venuto Per bevere un bicchier del vostro vino E d'antica amistà darvi il saluto. A TERESA BARRERA-FOGAZZARO. 175 0 mio soave Antonio, o Mariano, E tu materna gloria, Ina ! felici Io vi riveggo, o sospirati invano Per tante lune da' lontani amici. Non io credea, che sì gran tempo Iddio Ne volesse disgiunti. 0 quante volte Seguitai con inutile desio Fulgide nubi all' occidente volte! Quando dal trionfato Etna torrenti Precipitaro di guerriera lava. Le braccia apersi, ma confusa a' venti L' altera vision si dileguava. I Sogno d' infranti cori ognor distrutto E rinascente ognor, come d' arena Cumol legg;ero che scherzoso flutto Scioglie e rifa colla tornante piena. Quando fia che s' avveri ? Il cor presago Già r ore ha noverate. Intanto in questa Fidata solitudine del lago Che barbarica insegna non funesta, La stanca anima mia possa una volta Prevenir, festeggiando, i dì venturi; E alla gentil, che del suo nome ascolta Oggi r aure echeggiar, sciorre gli auguri. 17G A ThKIvSA IJAIiUKUA-FOGAZZAKO. Discendi, Ina, al giardin: spicca la fronti; Che fresco serba d'ogni tempo il santo Color della speranza, e ne circonda Il mio bicchier: liete venture io canto. 0 dolci capi, a cui nien parve amaro L' esigilo, che mirar volto nemico. Ma con memore affanno ognora al caro Aere anelanti del soggiorno antico, Torneran V erbe nove; e voi vedrete Dietro la santa italica bandiera Del bello eremo vostro alla quiete Accorrere d' amici allegra schiera. Noi verremo a levarvi. 0 generose Anime schive, nelF angusta chiostra Di questi monti troppo a lungo ascose, Venite a riveder Vicenza vostra. Spezzato il giogo boreal. respira Am-e felici: da rimote bande Gli armati figli riedere rimira Fieri di cicatrici e di ghirlande. 0 la pili cara e misera di quante Illumina città V italo sole, Piacconsolata madre al seno amante Alfin raccolga la dispersa prole. VENEZIA A DANIELE MANIN NEL 1866. Non dirmi infida, se allegra in dito Porto r anello d' altro marito : €on altro giuro ti son fedele, 0 Daniele. Vedova piansi, piansi i miei figli, Piansi i flagelli, piansi gli esigli ; ^ Vuoti i miei porti, frante le vele, i 0 Daniele. Voller da' sassi rader la storia ; Pegni immortali della mia gloria, Voller rapirmi volumi e tele, 0 Daniele. Sovra le tombe d' Emo e Pisani A risvegliarli battei le mani; E non udirò le mie querele, 0 Daniele. Zanella. 12 178 VENEZIA A DANIELE MANIN. Dair occidente venne un Guerriero ; Era la Croce sul suo cimiero ; Era il suo nome V Emmanuele, 0 Daniele. De' nostri figli pietcà lo prese ; L' elmo levossi, sposa mi chiese, Cangiommi in festa V ore di fiele, 0 Daniele. Del Canal grande libero è '1 varco; Il mio leone veglia in San Marco; Plaudono i morti da San Michele, 0 Daniele. Ancor de' dogi siedo sul trono, Come il mio mare libera io sono; Sposa a Vittorio ti son fedele, 0 Daniele. 1 A CAMMILLO CAVOUR NEL 1861 ì 0 neir ora del nembo e del perìglio Sempre invocato, che piìi grande appari Quanto più gonfi il trepido naviglio Battono i mari ; Chiuse son 1' Alpi allo stranier : clemente Rise una volta a' popoli fortuna : Tutte al suo desco le città redente Italia aduna. Più non cercar. Delle battaglie il nome Oh non chiedere a' tuoi: sovra qual onda, Sovra qual campo; e se le nostre chiome Lauro circonda. A' vincenti terribile il vessillo Parve d'Italia: i giovani guerrieri Volar suir erta, ma con noi, Cammillo, Tu più non eri. 180 A CAMMILLO CAVOUR. Invai! crebber le file : invan da' porti Più possente navil sciolse il nocchiero; Non valser tante prue, tante coorti Il tuo pensiero. In picciol nido l'aure interrogando, Con poco stame a lunga tela assiso, E l'ovra della mente ardua velando Di facil riso. Gli ocelli alzasti ; e di fanti e di cavalli Alla muta parola obbedienti Dal Cenisio sull' itale convalli Sceser torrenti. E pria sul lido del remoto Eusino Fra le pugne agitata e fra le nevi La morta face del valor latino Raccesa avevi. A' cupi geni del Tirren custodi Serti offrivi non visto, e taciturna La partenza pregavi e fida ai prodi L'aura notturna. Quando dell' Etna alla fremente riva I Mille veleggiavano; portavi, Celando sotto il mar la man furtiva, Le balde navi. A CAMMILLO CAVOUR. ^81 Sparver gli avversi troni; e del tuo spiro Che percorrea de' novi abissi il seno, La possa irresistibile sentirò Adria e Tirreno. Itali fummo. Ed esultavi allato Del Re più degno in Campidoglio atteso, Quando cadevi, e dell' Italia il fato Parve sospeso. Ansio cadevi dell' Olimpo al piede, Indomato Titano. Orfana ancora Suir orma tua, cui pari altra non vede, Italia plora. Ode di pugne inauspicate il foro Eisonar tempestoso; ed ella intanto A' suoi mali non trova altro ristoro Che sdegno e pianto. Dell' indugio si sdegna e de' consigli Con gioco assiduo sul fiorir recisi ; D'altre barriere, che di monti, i figli Piange divisi. 0 nata a non perir, stirpe fatale ! 0 risorgente dalle tue ruine Popolo, che ricigni or l' immortale Mula al crine ; 182 A CAMMILLO CAVOUR. De' secoli più grande e de' tuoi guai, Se come in altro dì non ti è concesso Pieggere il mondo, mostra almen che sai Regger te stesso. L' INDUSTRIA. AD ALESSANDRO ROSSI MEMBRO DEL GIURÌ INTERNAZIONALE ALl' ESPOSIZIONE DI PARIGI 1867 Scaduto, e nel romor delle foreste, Nel cupo rombo decorrenti usato Il fremito ascoltar di un provocato Sdegno celeste; Col gel, co' nembi, colle belve in guerra, Di selce armato e di nodosa clava, Questo re del futuro attraversava Nudo la terra. Smisurati di possa e di statura. Mastodonti e primevi orsi scomparsi, Ei, fragil tanto, usciva a misurarsi Colla natura. 184 l' industria. Fragil sì, ma pensante. Anne il leone Pari non ha; né desolanti il dorso Schermo più fitto e siniioso al morso De' venti oppone, Di quel che V uom coli' ingegnosa mano Alle sue membra ordisce ed invermiglia, Tolto il vello alla greggia e la conchiglia Air oceano. Tu sulla Senna in trionfai convegno L'arti, Alessandro, affratellarsi hai viste, E la pompa spiegar di sue conquiste L'umano ingeerno: Visto hai fervere un mondo; e sotto gli arci; Fastosi de' trofei di mille climi, L' orma arrestar meravigliando agi' imi Misti i monarchi. Tu, coronato giudice, l'alloro Che r età più non dona a colpe illustri Desti dell' officina a' figli industri, Desti al lavoro. Qual invidia finor l' alme commosse ? Quale di fati violenza, amico. Del non mertato vitupero antico L' arti percosse ? l' industria. 185 Che dall' Asia raminghe e fuggitive, Il foco genitor seco recando Sotto la ve;3te e dell' Egeo sostando Lungo le rive. Con Dedalo al Tirren vennero erranti Ove notturne porpore tessea Circe al lume de' cedri e l' alte empiea Grotte di canti. Sacre a' temuti sotterranei numi, A lor non valse il calice de' fiori Finger nel vetro e ne' torniti avori Chiuder profumi; Nò valse ad esse sugli ambrosii crini Di patrizie fanciulle e di matrone Scintillanti depor frali corone Di oro e rubini. Vili, abborrite sulle serve incudi Lagrimando battean spade e corazze. Ed al braccio fornian d' eroiche razze Epici scudi. Vanti i tuoi dritti e della Fé degli avi Ridi, superba età. Ma non di Atene, Nò di Roma venia chi le catene Ruppe agli schiavi; 186 l' industria. Dal casolar del Legnaiuolo ebreo Nel mondo uscì mirabile dottrina Che fé santo il lavoro e V officina Novo Tarpeo. Sotto le vòlte allor de' monasteri Correr di pialle un romorio s' intese, E più grato al gran Fabbro il suono asceso D' inni e salteri. E tu le plebi gloriose allora A' telai della seta e della lana Chiamavi colla vigile campana, Inclita Flora; Che poscia in più terribile fatica Le vedevi, serrate agli stendardi. Eccelse fulminar da' baloardi L'oste nemica. Tu rinnovi que' giorni, e di portenti Nobiliti, Alessandro, il suol natio. Tu che al lembo de' colli . e del tuo Schio Lungo i torrenti, Schiudi all'arti rinate immensa reggia, A cui gì' ingenti turbini già manda Angla fornace e la rimota Olanda Tonde la greggia. l'industria. 187 Mugge anelando, e. somigliante a domo Chiuso Titano cento rote e cento Volve il vapor che dall'assiduo stento Francheggia V uomo. Finor, se le tue membra, egro mortale, Dalle pioggie scampasti e dalle nevi. Tu stesso al subbio, al pettine stendevi La man regale. Or natura non sol ampio ti dona Quanto racchiude nelP immenso seno. Ma di sue forze onnipossenti il freno Or ti abbandona. Sulla terra comparso ancor non eri, E delle felci torreggianti a' rami Sporgean V enorme dente ippopotami E megatèri, Quando le dighe agli oceani aperse Previdente natura e ne' marosi Che r alpe trascinavano, i frondosi Kegni sommerse, Perchè nel tardo volgere degli anni Indefesso ministro il foco ardesse, E di artefatta folgore corresse L'uomo sui vanni. 188 ^ l' industria. Delle cose pacifico signore Nelle tue sale risonanti assiso, Al girar di una rota intento il viso, Ad altro il core, Tu già vedi, o mortale, ossequiosi Foco ed onda per te torcer lo stame, Stringer l' ordito e colorar le trame, Mentre tu posi. Posi del corpo; ma quiete ignora L' infaticato spirito die move Di cielo in terra e nove corse e nove Contrade esplora. A LODOVICO PASINI SENATOKE DEL REGNO. Quando dall' onda le nembose spalle Sollevassero le Alpi, e di vulcani Tutta ardesse del Tevere la valle; Quando vagante pe' deserti piani Il vorticoso Eridano i maggesi A popoli impinguasse ancor lontani, Tu ben- sai, Lodovico, a cui palesi Splendono nel granito e nella lava Remotissimi giorni a noi contesi. Stanza in vero superba apparecchiava Fra le chiostre de' monti e la marina Che accarezzando la circonda e lava, Alla fatata sobole latina Favorevole Iddio che il portentoso Albergo le munia come a regina. ]90 A LODOVICO PASINI. Ne corcato sui fiori e neghittoso Popolo già nudrì questa contrada Surta pur ora da servii riposo; Bensì duro e guerrier che colla spada I termini toccò dell' universo, Di lauro ornando la sanguigna strada. In cavo nicchio per tremoto emerso, 0 per torrenti allo splendor del sole Tutto un mondo tu scorgi ora sommerso; . E dal pondo de' crani e dalla mole D' impietrata mandibola argomenti D' estinte belve gigantesca prole. Ma se lungo la Chiana e le correnti Dell' Ombron tortuose il passo arresti. Salir vedi di terra i monumenti Della velata Etruria, e manifesti Ne' pinti vasi di possenti schiatte Miri i gran corpi e le pompose vesti. Contro i secoli ancor Roma combatte Vittoriosa, e le gran membra ostenta Da tanto ferro e tanta fiamma intatte, A LODOVICO PASINI. 191 Già del mondo maestra, che rammenta A noi r eccelso compito e riprende Qual pari all' ardua soma il cor non senta. Bello, come soleva, ancor risplende L'italo sol che dal Cenisio al Faro Mirabil possa d'intelletti accende; Ma le virtìi che agli avi il petto arraaro, Ferreo voler, sublimità di core. All' Italia or contende il fato avaro. Splender desia d' intempestivo onore Qual più la patria di servir si vanta, E del tardo poggiar sente rossore, Quando tarda veggiam crescer la pianta Che il dolce pome al villanel matura Ne sol di ombre infeconde il suolo ammanta. Molti verni vegliati e la natura Delle leggi, de' riti e de' costumi Ricerca aveva con intenta cura; Corse più terre e valicati i fiumi •D'inclite genti il tuo fratello avea, Onde anco Italia ha lagrimosi i lumi. ]92 A LODOVICO PASINI. Non tessuta di sogni inane idea, Non illuvie di torbida eloquenza Air insorgente patria egli porgea; Ma di fede nudrito e di scienza, Degli eventi signore, austero senno E de' casi mortali esperienza. Lui l'altera Albione e luì di Brenno Vider solerte gl'inquieti figli De' potenti il pensier legger nel cenno ; Nò fu per lui se 1' Aquila vermigli Nelle reni del veneto Leone Un' altra volta conficcò gli artigli. Poi sulla Dora, in più solenne agone, Quando dritti soggiacquero e fortune Al novo carco che la patria impone, Vinto il clamore d' emule tribune, GÌ' itali fati a salda ancora avvinse Di comun fede e di tesor comune. Perchè l' ingegno suo che tanta vinse Ira di parti, nequitoso insulto Di cieco morbo innanzi tempo estinse? A LODOVICO PASINI. 193 Perchè fra tanto buio e nel tumulto Di abbaruffati pelaghi la vela Nocchier non regge alle tempeste adulto? Finor di avventurosi astri in tutela Ben fummo, Lodovico, o che segreta Vitalità possente in noi si cela. Se per tanto inattesa e poco lieta Di battaglie vicenda e di sventure Pur tocca abbiamo gloriosa meta. Sempre fauste così V ore future Ne rideranno? De' felici allori In eterno godrem l'ombre secure? Genti men fortunate, a cui minori Or di studi pur slam, d' armi e d' impero, Ponno acquetarsi de' secondi onori. Ma questa regal madre, a cui già diero Provvidi i cieli esser lucerna al mondo, A mezza via non resta; o nel primiero Lustro risorge, o dee tornarsi al fondo. Zanella. 13 AI.!, A MKMOKfA DI GUGLIELMO TOALDI PBOFKSSOUK' NKL «INNA810-LICK0 Dt VICENZA. Se sui cardini udissi all' improvviso Strider la porta, e come desto a' passi D'uom non atteso, rivolgendo il viso Io ti mirassi; Io ti mirassi a me dinanzi ritto Coir usato sembiante e colle vesti Con cui gli ultimi, presso al tuo tragitto, Baci mi desti; Meraviglia o terror già non avrei Come al cospetto di defunta salma. Così vivo ti pinge agli occhi miei Memore l'alma! Io ti ho sempre vicino e ti favello E gli amorosi tuoi consigli ascolto; E ben poco mi par quel che 1' avello Di te mi ha tolto. ALLA MEMORIA DI GUGLIELMO TOALDI. 195 Non è ver, mio diletto? Il solo frale Sente del marmo che V accerchia, il peso ; Ma contro miglior alba agita V ale Lo spirto illeso. Ne' giorni andati, o da volume aperto Togliendo gli occhi, o sulla sera al blando Alito estivo per sentier deserto L' orme mutando. Quante fiate noi parlammo insieme Di questo infido trapassar delF ore, E di nascosa sovrumana speme Nudrimmo il core ! A noi la vita non sembrava un gioco Vano, volgar; ma di non fral natura Nobil metallo che scaldato al foco Della sventura. Del dolor sotto i colpi e nel lavacro De' nostri pianti ritemprato assume Gloriose sembianze e simulacro Fassi di nume. Tu, beato scultor, sorger già vedi L' effigie tua d' eternità nel tempio ; [E di là scendi a noi che festi eredi D' inclito esempio. 196 ALLA MK>fORIA DI GUGLIELMO TOALDI. Di noi, d' Italia che ti ? ambra? Al vago Segreto presagir che il tuo pensiero Iva allegrando di superba immago, Risponde il vero? Pari a quel nostro antiveder ti sembra L'amata patria? 0, lo stranier respinto E in un raccolte le divise membra. Non tutto ha vinto? 0 caro spirto, che vivendo a' fiumi Puri guidavi de' garzoni il coro ; Né bello ti parca senza i costumi Puri r alloro ; Itali giovanetti a stuolo a stuolo Sovra campo volar di stragi orrendo, E da barbara possa il patrio suolo Francar morendo. Ma del sangue gentil piena la mèsse Già non fia, se i superstiti non move Emula fiamma sovra le orme istesse Ad altre prove; Se di maschil pudore e di bei studi In duro agon non crescono nudriti ; E più schermo non fanno agli ozi ignudi De' vanti aviti. I VERSIONI BIBLICHE. I IL CANTICO DI DEBORA. Giudici, Capo V. 0 prodi che al folgore De' brandi, dell' aste Il petto magnanimo In campo snudaste, Ne' rischi con giubilo Poneste le vite, A Dio benedite. Porgete 1' orecchio, 0 prenci e regnanti: 10 son che glorifico 11 Santo de' Santi ; Al Dio degli eserciti Io Debora, io sono Che il cantico intuono. 200 IL CANTICO DI DKROnA. 0 Signore, quel dì che alle spalle Di Seìr ti lasciasti la valle, E d' Edòme per V ampia contrada A' tuoi servi segnasti la strada. Spaventata die un balzo la terra Che ti vide discendere in guerra; Cieli e nubi si sciolsero in fonti; Come cera si strussero i monti; Tocche al vampo dell' ira divina Dileguaro le balze del Sina. Ma neir età di Sangaro, Ne' giorni di laele Le vie maestre tacquero Deserte in Israele: Tremando i passeggeri Battean torti sentieri, Finché terribil sorse Debora in guerra, e madre Impavida soccorse Air invilite squadre. Dio nove pugne elesse, Dio gli orgogliosi oppresse. Quarantamila in campo Trasse Israel: ma nudi D' aste venian, ne scampo Avean d' usberghi e scudi. IL CANTICO DI DEBORA. 201 Voi, voi, gran duci, appello, Salute d' Israello ! Voi, voi, che del nemico L' ire sfidaste, al Santo, Al Dio di Abramo antico Lieto intonate il canto. Cantate le sue glorie. Dite le sue vittorie Voi che premete in corso Di bianche asine il dorso; Voi che sedete al fòro Maestri della legge. Magnificate in coro Colui che ne protegge. Dove allo scontro orribile Giacquero i carri infranti; Dove il torrente esanimi Volve cavalli e fanti, Cantiam, cantiam le glorie, Del Dio delle vittorie. Terribile a' protervi, Benigno co' suoi servi. Spezzate le ritorte La gente allor convenne Festosa in sulle porte E '1 principato ottenne. 202 IL CANTICO I»l DKHOKA. / Sorgi, Debora, sorgi, il canto intuona; Sorgi, Debora, alF inno impenna il voi; Sorgi, Barac fedel; sorgi, imprigiona I vinti tuoi, d' Abinoàm fìgliuol. In salvo d' Israel sono gli avanzi ; Co' servi suoi l'Altissimo pugnò; Ei che col braccio d' Efraìm pur dianzi D' Amalecco le file esterminò. Uscì da Beniamino altro leone, Pur terror di Amalèc: mandò Machir I suoi prenci alla pugna; e Zabulone I duci ad Israel scese ad offrir. Venne Issacàr: né scolorossi in viso Barac, il forte, delle trombe al suon. In contrari voler Paiben diviso Fra' suoi prodi agitò vane tenzon. Che stai, che stai fra due confini assiso, Mandr'ian delle gregge intento al suon? In contrari voler Ruben diviso Fra' suoi prodi agitò vane tenzon. Oltre il Giordan guardò vilmente il nido Galad, nel Dan le navi sue lasciò; Del mare si ritenne Àser sul lido E ne' porti al terror schermo cercò. I i IL CANTICO DI DEBORA. 203 Ma Zabulone e Neftali di prandi Vii desìo non trattenne, e dal Tabor Sulle pianure di Meròme a' brandi Nemici il petto scesero ad oppor. Vennero i re; con noi pugnaro; accanto All'acque di Megiddo alto pugnar; Ma de' re Cananei fu stolto il vanto, Che né un' oncia d' argento indi portar. Dal ciel per noi pugnarono Amiche le procelle; Schierate incontro a Sisara Pugnarono le stelle. I monti de' cadaveri Neil' onda sua repente Trasse il Cison torrente, Trasse il Cisonne, all' imo Travolse il Cadumimo. Anima mia, calpesta. Calpesta i gloriosi Che contro Dio la testa D' inalberar fur osi. Ove son essi ? L' ugna Tritossi de' cavalli. Fuggendo dalla i)ugna 204 IL CAMILO DI DEBORA. Per dirupati calli I più valenti ! ansanti Van pe' burroni erranti. Ma di Mezor maledetta, Disse r Angiol, sia la terra; Sia la gente maledetta Che non surse al suon di guerra; Co' guerrier non si son misti Ne' conflitti del valor ; Co' fratelli non fur visti Alle pugne del Signor. Fra le donne benedetta In eterno sia laele, La pudica, la diletta Del Cineo sposa fedele; Benedetta la tremenda . Che Israele francheggiò; Benedetta nella tenda Ove Sisara prostrò. Venne e d' acqua ei la richiese. Fior di latte in regal vase Ella incontro offrì cortese. Come il ciel le persuase. Colla manca strinse un chiodo, Colla destra un maglio alzò. IL CANTICO DI DEBORA. 205 E, spiato al ferir modo, Nelle tempie gliel cacciò. Traforolle. Al suo cospetto Si scotea divincolando; Trambasciando, sanguinando Si torceva il maledetto. Finché giacque in abbandon Fiero ingombro al padiglion. Dalla finestra protendea lo sguardo La madre intanto e lo chiamava a nome. Perchè non giunge? come il voi di sue quadrighe oggi è sì tardo, Di sue quadrighe il voi che il vento avanza? Ululando dicea nella sua stanza. La maggior delle ancelle a confortarla fAllor così le parla: :0r dividon le prede: immense prede [Essi forse non fero ? Una donzella, >ue donzelle a ciascun; ma la piiì bella 'A Sisara si dà. Di ostro superba E di rubini screziata e di oro ^Per Sisara una veste si riserba; [Ei già vi passa la cervice, e riede ;Grave le terga di regal tesoro. 206 IL CANTICO DI DEBORA. Perai! così, Signore, Perano i rei ! Ma quanti Ti aman di saldo amore, Fulgor di gloria ammanti, Pari al fulgor che splende In volto al sol che in oriente ascende. LAMENTO DI DAVIDE IN MORTE DI SaULLE E DI GlONATA. Dei Re, Lib. II, Gap. Pensa, Israello, pensa eh' estinti Alla montagna giacciono i forti. Come i valenti furono vinti ? I generosi come fùr morti? Gl'incliti in guerra principi invitti Alla montagna giaccion trafitti. Noi dite in Gette : né d' Ascalonne Sovra le piazze sia chi l'intenda; Deh! che Filiste fra le sue donne Del nostro lutto gioia non prenda ; Alle sue figlie con un sorriso )he noi racconti V incirconciso ! 208 LAMENTO 1)' DAVIDE. Monti di Gelboe, pioggia o rugiada Su voi non scenda: d'erba sia nudo Il tristo campo, nudo di biada, Ove de' forti giacque lo scudo ; Ove Filiste pose in obblio, Ch'era Sanile l'unto di Dio. Dritto nel core degli animosi Vibrava Gionata dardi mortali: Fitti neir adipe de' valorosi Ancor di Gionata stanno gli strali: Il prò' Sanile scarco di prede Mai dalla pugna non torse il piede. Sanile e Gionata vaghi ed arditi. Ambo ad un' ora giacquero uccisi ; Sanile e Gionata, vissuti uniti. Nemmeno in morte furon divisi. Eran veloci più che sparvieri, Più che leoni erano fieri. Figlie di Giuda, levate il pianto Sovra Sanile! Quando ei reddìa Dalla battaglia, di roseo manto A vostra gioia vi rivestìa ; Offriavi pompa di auree corone. Quando reddiva dalla tenzone. LAMENTO DI DAVIDE. 209 Come, Israello, come al conflitto I generosi prenci fur morti? Sovra i tuoi monti come trafitto Oionata cadde, cima de' forti ? Per te dal core gemo, fratello; Sì prode, o Gionata, eri e si bello ! Più che l'amore di giovinetta Mi fosti all'anima dolce sospiro. Come de' monti caddero in vetta? I valorosi come morirò? Gl'incliti in guerra principi invitti Alla montagna giaccion trafitti. Zanella. LA DONNA FORTE. Proverbi, Capo ultimo. Delle donne la prudente, La magnanima dov' è ? Più che perla d'oriente Preziosa è la sua fé. Il marito in lei riposa, Come in angiol del suo cor ; Mai lontan dalla sua sposa Noi trarrà di preda amor. Non un duol, ma mille beni Ella a lui dispenserà. Mille gioie, finché pieni Sian gli spazi delP età. Ammassò fra le pareti Lana e lino di lontan, E bellissimi tappeti Seppe trarne di sua man. t ( LA DONNA FORTE. 211 Alla nave ella somiglia D' avveduto mercator, Che da lungi alla famiglia Torna ricca di tesor. Sorse al lume delle stelle. Diede cibo a' suoi garzon, E chiamò le fide ancelle Ad allegra imbandigion. Con sottile accorgimento Guardò un campo e 1' acquistò : Poi coi frutti del suo stento Una vigna vi piantò. I magnanimi suoi fianchi Ha precinti di valor ; Non è giorno in cui si stanchi 11 suo braccio nel lavor. I suoi traffichi condotti Vide ognor con equità, E gioinne. Nelle notti La sua lampa non morrà. II cammino a lei dischiuso Fu de' forti non invan : Fra r ancelle all' ago, al fuso Ella inchina la sua man. \ 212 LA DONNA FOUTK. La sua mano al poverello Liberale ognor si aprì; Da'siioi tetti l'orfanello Mai digiun non si partì. Non accorasi, se densa Vien la neve in sull'ostel: A' domestici dispensa Doppio manto contro il gel. Una veste a più colori Per sé stessa volle ordir : Ella gode, uscendo fuori, Bisso e porpora vestir. Il marito a sé gli sguardi Delle genti attirerà, Quando in piazza co' vegliardi Della terra sederà. Lavorato ha di bei manti E con oro li cangiò : A stranieri mercatanti Vaghi cingoli affidò. È fortezza il suo diadema: Il suo manto è maestà: Sul suo volto all'ora estrema Un sorriso brillerà. LA DONNA FORTE. 213 La sua bocca non ragiona Che di pace e di virtìi: La parola che perdona Sulle labbra ognor le fu. Della casa ogni sentiero Con attenti occhi spiò; Né, sedendo il giorno intero, Il suo pane ella mangiò. Vanto a lei di avventurosa Diero i figli, e 'n pie si alzar; Sorse anch' esso la sua sposa Il marito ad onorar. V'ha più d'una che si vanta Di oro e perle in quantità; Ma la gloria che ti ammanta Paragone alcun non ha. Fugge il vezzo, fugge il brio, Come lampo è la beltà, Ma colei che teme Iddio Esaltata ognor sarà. Le ghirlande oh! le sian porte, Che sue mani le acquistar; Si oda ognuno sulle porte L'opre sue magnificar. LA PREGHIERA DI GIUDITTA. GruDiTTA, Capo 9. Dio d'Israel, che il fulmine Al mio grand' avo in mano Un dì ponesti a sperdere Il popolo profano, Che dell' incauta Dina Con subita rapina Osava il sen virgineo Protervo violar ; Tu che gli aver dei perfidi, Le figlie e le consorti Desti terribil vindice In guiderdone a' forti, A' forti che l' acciaro Nel nome tuo snudaro; Signor, di afflitta vedova Or odi il supplicar. LA PREGHIERA DI GIUDITTA. 215 Degli empi lo sterminio Hai pieno allor: rinnova Con la superba Ninive Oggi, Signor, la prova! Sentiero non si serra A' tuoi voleri: in terra Tu compi irresistibile Quel che maturi in ciel. Sovra le tende assirie Piega, Signor, lo sguardo; Come sul campo egizio Fosti a mirar non tardo, Quando anelanti e fieri Di carri e di corsieri Premean gli accorsi eserciti Le spalle d'Israel. Tu li guatasti : orribile Un buio si diffuse; Neir ime sue voragini Il mar li accolse e chiuse. Peran così, gran Dio, Le genti che in oblio Han posto che de' secoli Ti nomini il Signor. 216 LA l'HKOHIKUA 1)1 GIUDITTA. Folli ! Nell'ampio novero Han fede de' gagliardi : D'elmi, di usberghi esultano, Di cocchi e lance e dardi: Né san che se ti sdegni, . Crolli cittadi e regni; Ch'ogni montagna è polvere Innanzi al tuo furor. Come nei dì che furono, Leva il tuo braccio, e l'empio Atterra, che di Solima Arder si vanta il tempio; Il tabernacol santo Bruttar di sangue e pianto; Col ferreo pome infrangere Il corno dell'aitar. Oh fa', gran Dio, che il reprobo Dalla sua stessa spada Tronco abbia il collo, e vittima Degli occhi propri ei cada ! Dalle mie labbra il mèle Distilli all'infedele; Di un laccio indissolubile Lo avvolga il mio parlar. LA PREGHIERA DI GIUDITTA. 217 Arma di ardir lo spirito, Perchè del reo non tremi: Dammi virtù che al tumido L' oltracotanza io scemi. Gloria ti fia, se inetta Oscura femminetta Queir orgogliosa furia Al suolo stenderà. Non è, non è nell'impeto De' cocchi e de' guerrieri La possa tua; né piacciono A te, Signor, gli alteri: Ma dell'umile a' preghi L'orecchio tuo non neghi; Del mansiieto a' gemiti Schiudi la tua bontà. 0 Re del ciel, che temperi L'aurora colla sera, Che i nembi aduni e dissipi, Odi la mia preghiera! A te meschina io grido; Debole in te confido; Del vecchio patto immemore, Signor, non sii con me. 218 LA PREGHIERA DI GIUDITTA. M'ispira il labbro: all'anima Senno e possanza infondi ; Che '1 limitar non calchino Di tua magion gì' immondi. Sorgano ancor gli altari, E pia la terra impari Che onnipossente ed unico Tu d' Israel sei lie. IL CANTICO DI GIUDITTA. Gii- DITTA, Capo ultimo. Oh, si agiti il cembalo, Il timpano suoni ! Cantate l'Altissimo, Invitti campioni ! 0 vergini, un cantico Suir arpe sonore Temprate al Signore! Si esalti la gloria, S'invochi il suo nome: Ei solo le furie De' popoli ha dome; Signore de' secoli, Signor degli eventi, Cantatelo, o genti. In mezzo al suo popolo Chiamato a tenzone Levò formidabile 220 IL DANTICO DI GIUDITTA. Il SUO padiglione: Si piacque proteggere Dalla ira straniera La fida sua schiera. Dai monti di borea L'Assiro discese, Di sue moltitudini Coprendo il paese: I fiumi seccarono; Di sotto a' cavalli Scomparver le valli. Giurava d'incendere La santa contrada; Nel petto a' miei giovani Tuffare la spada: Co' bimbi le vergini A barbare rive Tradurre cattive. Ma Dio colla folgore Incontro gli mosse; Per man di una debole L'altero percosse. Vittoria! Dal braccio Non ei fu trafitto Di giovane invitto; IL CANTICO DI GIUDITTA. 221 Non gli alti Titanidi Gli rupper la maglia, Né sceser gT indomiti O' Giganti a battaglia; La fidia di Merari Col florido viso, Giuditta riia ucciso. Il brun della vedova Vestito depose: Si cinse di giubilo, Ornossi di rose; Sul volto de' miseri Nelle ore supreme Fé rider la speme. Di nitido balsamo Le guance si tinse; Di mitra purpurea Le chiome costrinse: Al barbaro insidia, In manto novello Uscì dall' ostello. Neil' òr de' suoi sandali Fu domo r altero ; La donna bellissima 222 IL CANTICO DI GIUDITTA. Lo fé prigioniero; La donna terribile Sul collo esecrando Fé scendere il brando. I Persi gelarono Di tanto ardimento : A' Medi rizzaronsi I crin di spavento ; Allor di grandi ululi, Di orribili stridi Sonarono i lidi, Allor che i miei poveri Di sete languenti Dal muro piombarono Sulle orde fuggenti. Correte, lanciatevi, Mietete sulle orme Le barbare torme. La bionda progenie Di giovani spose Infranse di Ninive Le spade famose: I prodi non ressero, Di pargoli in guisa, All'ira improvvisa. IL CANTICO DI GIUDITTA. 223 Oh, grande all' Altissimo Si moduli un canto; Pel giro de' secoli Risuoni il suo vanto! Di Persia, di Assiria Al soffio di Dio Il fiore svanìo! Signor, tuoi gli eserciti, È tua la vittoria! Signor del mio popolo, Chi teco si gloria? Tu parli: dai vortici Del nulla fecondo Fuor lanciasi il mondo ; A'. piedi in silenzio Ti sta r universo ; Al suon di tue collere Ogn' empio va sperso ; Le pietre si squagliano, Ribollon le fonti. Traballano i monti. Beato chi trepido Ti cole, 0 Signore! Sul capo gli rutila 224 IL CANTICO DI GIUDITTA. Ghirlanda di onore, 0 giudice ei moderi In pace la terra, O fulmini in guerra. Ma guai chi sugli umili Tuoi servi si getta! A tergo gli mormora L' eterna vendetta : Nel giorno novissimo Fia cerca, fia rasa Degli empi la casa. Già turbini e folgori Accerchiano il loco: Son preda i cadaveri A' vermini, al foco, Al foco che orribile De' rei fa governo Nel secolo eterno. RICORDI DI TOBIA. Tobia, Capo IV. Ascolta, figliuol mio ; prima eh' io dorma Co' padri miei, la mia parola aseolta, Che di tua gioventù sicura norma Dentro del core serberai raccolta. Quando Iddio piglierà V anima mia, Aliai terra il mio corpo donerai; E la tua madre, come seco io sia. Tutti i dì di sua vita onorerai. Rammenta, figliuol mio, con quanto duolo Ti portò nel suo seno quella mite. Poi, quando morte le avrà dato il volo, Sian le sue ossa alle mie ossa unite. Quante son le giornate di tua vita L'immagine di Dio serba nel petto; Figlio, le strade del peccato evita E del Signor non frangere un precetto. Zanella. 15 226 RKJORDI DI TOBIA. Del tuo sii largo, e volgi mite il ciglio Al tapinel che ti tende le braccia ; Né mai verrà che dal tuo volto, o figlio, Bieca si torca del Signor la faccia. Dunque al tapino quel che puoi concedi; Molto darai, se abbondano gli averi; Se poca è la sostanza che possiedi, Dona il poco che puoi, ma volentieri. Oh che tesoro ti avrai ragunato. Se mai batta il bisogno alle tue soglie! La limosina lava ogni peccato E r uom nella suprema ora proscioglie. Chi dona al poverel quanto gli avanza Non cadrà nella notte sempiterna; Ma di giustizia pieno e di fidanza Trarrassi innanzi alla pietà superna. Guardati, o figlio, dalle turpi voglie, Né gir in traccia di profani amori; Di una fedel contento unica moglie, Vietate gioie non cercar di fuori. Poni studio, 0 mio caro, che l'orgoglio Non regni ne' tuoi detti o nella mente ; Da non altra radice uscì il germoglio Che tutta funestò l'umana gente. RICORDI DI TOBIA. 227 Air artigiano, quando il giorno è spento. La mercede darai che promettesti; Ed il salario debito allo stento Del mercenario presso te non resti. Quel che ti spiace che a te faccia alcuno Guarda, o figlio, che agli altri tu non faccia: Mangia il tuo pan coir Oxfanel digiuno, E allo ignudo una tonica procaccia. Sul sepolcro del giusto il vino, il pane Metti tu pur; ma non voler gustarne. Per quanto ami il Signor, colle profane Anime a' gaudi addette della carne. Sempre consiglio cercherai dal saggio; Sempre Iddio pregherai che i tuoi sentieri Illumini benigno col suo raggio. Sicché a lui sien rivolti i tuoi pensieri. Non temer, figliuol mio: povera vita Meniamo, è ver; ma sarem sempre in fiore. Se, Dio temendo e dando agli altri aita. Immacolato serberemo il cuore. JLiA DIVINA PROVVIDENZA. Matteo. Capo VI. Contadinello, che ne"' giorni brevi Lavor non trovi ed ansio del domani Miri dall'uscio le cadenti nevi, Che tutti intorno han già nascosti i piani, Se sgomento ti assale, odi parola Del Signor che t'c presso e ti consola. Figlio, soverchia cura Non prendere dell'ora Che r avvenir matura Fosco a' tuoi sguardi ancora. Se sulla nuda mensa Ti vien mancando il pane, Non ti atterrir; ma pensa Che un Padre ti rimane. • LA DIVINA PROVVIDENZA. 229 Se mentre gela il vento E stridon le tempeste, Il tuo carbone è spento, Sdruscita la tua veste, Non dire: « il poverello Chi coprirà di un saio? Al gramo villanelio Chi colmerà lo staio? » Di Dio non sei tu Topra? E non aver paventi Un cencio che ti copra, Un pan che ti alimenti? Mira gli augelli! A loro Il genitor celeste Altro non die tesoro Che il canto e le foreste. Non serbano di biade Cohni granai; ma quando Lo inverno l'aria invade. Il giorno ottenebrando. Con flebil pigolìo, Sparsi di neve il dorso, Levano gli occhi a Dio In cerca di soccorso. 23'v) LA DIVINA PROVVIDENZA. Ed Ei n'ascolta il grido; E r ali air aquilone Temprando, presso al nido Il granellin depone. E tu da men ti credi De' passeri ? Le core A' tuoi regali piedi Tutte il Signor non pose? Né del vestir ti accori Troppo il pensieri Colui, Che dà la veste affiori, Coprirà i membri tui. Guarda del campo al giglio Non fila, non intesse; Pur fu monarca, o figlio, Che simil veste avesse? Splendeva, come stella, Di ammanti e di corone; Pur clamide sì bella Non cinse Salomone. Che se bontà divina Veste così vii erba Che, volta una mattina, Al forno si riserba; LA DIVINA PROVVIDENZA. 231 Se amor che mai non dorme, Alla stagion nemica Le miserelle torme De' passeri nutrica ; 0 povero di fede, Sarà che ti abbandoni Chi lo spirar ti diede A ornarti de' suoi doni ? De' fiori tu men vali E degli augelli? 0 temi Che, aprendosi a' mortali, L' arca al Signor si scemi ? VERSIONI DA POETI LATINI. LE NOZZE DI TETIDE E PELEO CAIO VALERIO CATULLO. Canta la fama che gli annosi pini, Tronchi sul Pelio, di Nettun per 1' onde D' Feta navigassero a' confini E del lontano Faside alle sponde ; Quando lo stuol fortissimo de' Mini Desiderosi di rapir le bionde Auree lane ai Coleo, il lieve legno Sciogliere osaro pel salato regno. La santa Dea che all'ardue rocche impera, Pino a pin connettendo, avea costrutto 11 cocchio che al soffiar d' aura leggera Agii trasvola sul ceruleo flutto. Essa non tacque all' animosa schiera Le nautiche arti, onde per anco istrutto Mortai non era; e di sua man la prora Spinse pe' calli inviolati ancora. 236 I^K NOZZE DI TETIDE B l'KLEO. Come gli umidi piani il rostro aperse E sotto i remi il mar fessi d' argento, Dalle candide spume il coro emerse Delle Nereidi attonite al portento. Quel dì vago spettacolo si offerse Alle umane pupille: a cento a cento A fior dell' increspate acque marine Schierate le vezzose Oceanine. Allor Peleo per Teti arse d' amore, Né Teti disdegnò nozze terrene; Allora de' celesti al genitore Di Teti e di Pelèo piacque l' imene. Salvete, o nati a secolo migliore, Avventurosi eroi, nelle cui vene Corre sangue immortai! Tetide bella. Te madre fortunata il canto appella; E te, splendor del Tessalo paese, Peleo, da' fati a sì gran nozze eletto, A cui Giove la ninfa non contese, Ond' ei stesso portava acceso il petto. Dunque è ver che co' divi occhi ti prese La bella Nettunina? E prediletto Genero fosti all' Oceàn che serra Co' flutti interminabili la terra? Il LE NOZZE DI TETIDE E PELEO. 237 Come, corsi più di, V alba prescritta In CÌ3I0 apparve, alle regali porte Tutta Tessaglia in festa si tragitta E di lieti drappelli empie la corte. Han doni in mano : V allegrezza è scritta Ne' volti. Già di Sciro e della forte Larissa, già di Tempe e di Granone Riman vota ogni piazza, ogni magione. A Farsaglia s' avvian, tutti a Farsaglia Convengono gli sparsi abitatori. Alla campagna alcun più non travaglia, Si ammorbidisce la cervice a' tori : Niun più pota le vigne e più non taglia L' inutil ombra agli arbori ; i lavori Taccion ne' solchi e rugginosi ed atri In disparte riposano gli aratri. Ma nel. più chiuso delle regie sedi Tutto è luce d' argento : i vasi d' oro, Son d' avorio i sedili, e sotto i piedi Calpestasi de' re sparso il tesoro. Locato in mezzo della Dea qui vedi Il letto gen'ial, vago lavoro D'indico dente, sovra cui distesa Pende coltre superba in ostro accesa. 238 T.K NO/ZK 1>T TKTn»K K PKI-KO. De' prischi eroi V immagini e le ciliare Imprese son dipinte in quella vesta. Cogli occhi volti al pin che via pel mare Porta Teseo, coir anima in tempesta, ' Arianna di Dia sul lido appare, Ignara se ancor dorma ovver sia desta. Come quella che sente e crede appena Sola trovarsi suU' ignuda arena. Ma già co' remi lo spergiuro amante Fende i campi marini e si ritira. Col pie suir alga, pallida in sembiante. Lui da lontan la giovane rimira Stupida e fissa a guisa di Baccante Sculta nel marmo: guarda e non respira; Guarda incerta ondeggiando, e del suo male Crudel presentimento in cor 1' assale. Già la mitra sottil dalle sue bionde Chiome in terra è caduta: il vel disciolto Più le nevi del seno non asconde. Ne più porta il bel cinto al fianco avvolto; Vaghi fregi ch'or gioco erran dell'onde Presso i suoi piedi. Ma del crine incolto. Della mitra, del manto a' flutti in preda Già non par che la misera s'avveda. LE NOZZE DI TETIDE E PELEO. 239 Teseo sol pensa : in lui sol uno ha fisse Le luci, in lui sepolto ogni pensiero. Ahi di che spine il core le trafisse La cruda madre dell' alato arciero, Diva Ericina! E l'innocente afflisse Nella stagion che baldanzoso e fiero Teseo da' porti uscì d' Atene e scese All'infausta magion del re Cretese. È vecchio grido popolar, che infetta Da crudo morbo l' infelice Atene Col sangue de' suoi figli a scior costretta Del trucidato Androgeon le pene, Di verginelle e di garzoni eletta Schiera mandasse alle gortinie arene, Belli, innocenti nell' età piiì fresca, Al crudo Minotauro orribil esca. Cotanto lutto del paterno nido Teseo mirando, non patì 1' oltraggio, Ma giurò di morir pria che a quel lido Ancor l' infame pin fesse passaggio : Salse animoso sulle navi, e fido Il vento supplicando al suo viaggio, Sen venne e del magnanimo Minosse Alle sedi superbe appresentosse. mO LK NOZ/K DI TKTIDK K PELKO. Come in lui volse i desiosi lumi La regal figlia, che su casto letto Odorato di vergini profumi Crescea blandita sul materno petto Quali crescono i mirti in riva a' fiumi 0 le rose amoreggia un zefiretto, Da lui gli accesi rai prima non tolse, Che fiamma spaventosa in petto accolse ; E per r ime midolle il reo veleno Sentissi errar degli amorosi strali. Divo garzone, che cotante in seno Levi tempeste a' miseri mortali ; E tu, regina Venere, che il freno Reggi di Golgo e dell' Idalia, in quali Flutti, ahimè!, travolgeste la delira Che del biondo stranier arde e sospira I O quante volte svenne di paura E si fece più pallida dell' oro, Quando 1' ardito giovanetto a dura ?ugna scendea col formidabil toro, Fermo di correr 1' ultima sventura O di mercarsi glorioso alloro. Al ciel, che tutta non udìa l' inchiesta. Ella voti porgea tacita e mesta. LE NOZZE DI TETIDE E PELEO. 241 Perocché qual del Tauro in sulle cime Quercia che il capo a\ venti agiti altera, 0 resinoso larice sublime Divelto dall' indomita bufera Cade air ingiuso e minando opprime L'ampia foresta; la biforme fera Cotal cadeva rovesciata al piano, L' aure ferendo colle corna invano. Doma cadea dalle robuste braccia Dell' invitto Teseo, che senza offesa Di nobile sudor sparso la faccia Il piede ritraea dall' alta impresa. Del labirinto per la cieca traccia Con un filo reggea 1' orma sospesa ; Con un candido fìl, sicura aita De' curvi calli a ritrovar 1' uscita. Ma dove erro ìontan dal mio subbietto? Che più dir deggio? Come la donzelhn Involossi del padre al dolce aspetto Ed alla compagnia della sorella? Come lascio nel desolato tetto La madre, che piangendo invan T appella? Forse dirò come a sì sante cose Il soave di Teseo amor prepose? Zanella. 16 242 LE NOZZE DI TETIDE E PELEO. 0 come ascesa sul veloce abete Di Dia seii gisse allo spumante lito? 0 gli occhi avvinta di fatai quiete L' abbandonasse il perfido marito ? Antichissima fama ancor ripete, Come furente pel deserto sito Ella il cercasse; e di voci alte e tronche Facesse risonar V erme spelonche. Certa omai de' suoi danni, in sulla vetta Or salia d' una rupe e protendea Lo sguardo sull' azzurra onda soggetta Che immensa all' orizzonte si perdea; Or calava ne' flutti, e semplicetta Il lembo della veste sospendea; Stanca ristava e singhiozzando a' venti Affidava i novissimi lamenti: « Così, poi che m' hai tolta al patrio regn( Soletta m' abbandoni in mezzo a' mari. Empio? Né temi degli Dei lo sdegno? Né sai quante sciagure a' tuoi prepari? Dunque ritrarti dal crudel disegno Nulla ha potuto? Né '1 membrar de' cari Primi giorni vissuti in tanta spene T' ha commosso a pietà delle mie pene? LE NOZZE DI TETIDE E PELEO. 243 Ah queste, no, non son, queste, o spergiuro. Le promesse non sono d' una volta; Non è questo quel roseo futuro Che air alma promettevi ignara e stolta ; Ma che a nido d'amor lieto e sicuro Stata sarei nelle tue case accolta. Sognate voluttà, vani contenti Che tutti si portar per l'aria i venti. Donna non sia, che più creda verace Il giuro dell' amante é la promessa. L' amante per aver quel che gli piace Di giurare e promettere non cessa; Ma poi che spenta ha la sua sete e tace La cieca voglia, che 1' ardea, repressa, De' giuramenti piiì non ha paura E le date promesse più non cura. Eri a morte devoto, ali or eh' io venni Con mio periglio a trarti in salvamento: Perdere il fràtel mio prima sostenni Che abbandonarti nel fatai momento: In mercè della fede che ti tenni A lupi ed avoltoi preda divento, Lassa! né fia chi morta mi ricopra. Poca polve al mio fral gittando sopra. 244 I.K NOZZE DI TKTinE K PELKO. In quali rupi, in quai solinghe grotte Errante leonessa il sen t'offriva? Qual mar dall' onde in gran tempesta rotte Ti vomitò sulla deserta riva? Qual Sirti, o Scilla che i navigli inghiotte, Qual Cariddi, o crudel, ti partoriva, Che per la vita, che t* ho salva, questi Render, perfido, puoi premi funesti ? Se non t' era in piacer d' avermi a sposa, Poi che tei vieta il vecchio padre, almanco Teco tratta m' avessi ossequiosa Schiava fedel che ognor ti fossi al fianco ! Sì superba non son, né sì ritrosa Ch' io non godessi al pie leggiadro e bianco Apprestarti lavacri e d'un eletto Purpureo drappo ricoprirti il letto. Ma perchè all' aure i miei lamenti io spai Ebbra di sdegno e per dolore insana? Sorde son l'aure; e quell'infido il largo Ha già preso del mare e s' allontana. Io guato intorno il solitario margo. Né sovra l'alghe appar sembianza umana; Così di tanto il fato anco m' insulta. Che vuol ch'io muoia a tutto il mondo occul LE NOZZE DI TETIDE E PELKO. 245 Oh, non fossero mai nel dì primiero Gimite l'attiche navi a queste bande! Ne mai recato lo sleal nocchiero Avesse al Minotauro ostie esecrande! Ne questo traditor, questo straniero Che sotto forme graziose e blande Sì rei proponimenti in petto accoglie, Mai posto avesse il pie nelle mie soglie! Or dove me n'andrò? Quali sentieri ¥m che additi speranza al core afflitto ? A' monti Idei ? Ma tempestosi e neri I flutti mi contendono il tragitto. Dal genitore che soccorso io speri? Dal genitor che ingrata ho derelitto Per seguitar lo sconosciuto amante Che del sangue fraterno era grondante? 0 che col fido amore io mi consoli. Col fido amor di lui che m' abbandona ? Nave non veggo che di qua m' involi ; Nudo ed immenso è '1 mar che m' imprigiona. Io lochi qua rimiro ignoti e soli, Erme piaggie, ove d' uom voce non suona; Sabbia sol miro squallida, deserta, C'hiuso ogni scampo e la mia tomba aperta. 246 r.K NOZ/K DI IKTIPI', K l'KI.Kt». Morrò: ma tronchi i miei vitali st:uni Grià non saranno, nò questi occhi miei Si chiuderanno al sol, pria eh' io non chiami Mia vendetta mia tutti gli Dei. Voi, terribili Erinni, che V infami Punite col fragello opre de' rei, Voi, cui del cor V inesorabil ira Dalla fronte di serpi irta traspira, Qua qua tosto correte: il grido estremo Udir vi piaccia, che dall' imo core A voi sollevo smaniando e fremo In preda alle mie fiamme, al mio furore. Che se veraci sono i guai che gemo. Fate indarno non cada il mio dolore; Ma qual qui Teseo per obblio mi lascia, A' suoi rechi e a se stesso immensa ambascia. Dopoché queste voci dal profondo Petto all'aure commise la dolente, Accemiò '1 capo il gran Rettor del mondo Della vendetta in segno che le assente ; Tremò la terra e l'Oceàn dal fondo Tutto turbossi al cenno onnipotente; Si scosse il cielo, e spaventosi lampi Gittàr le stelle pegli eterei campi. LE NOZZE DI TETIDE E PELEO. 247 Ma d' improvviso buio l' intelletto A Teseo si coprì, che sul!' istante In altissimo obblio pose il precetto Che pria nel core gli sedea costante. Promesso aveva al genitor diletto, Tosto che al porto si vedesse innante, Far di candide vele il legno adorno. Segnai della vittoria e del ritorno. Poiché, se fama è vera, il dì che uscìa Teseo d' Atene, Egeo, che la sua prole Vedea de' venti infidi irne in balìa. Mosse, stretto al suo sen, queste parole: « Figlio, 0 diletto figlio, o della mia Sconsolata vecchiaia unico sole. Figlio che or or tornato alla mia corte. Pur mandar son astretto incontro a morte, Quando pure il mio fato e V animoso Tuo cor da me ti vogliono diviso, Che non ancor lo stanco e desioso Sguardo ho satollo nel tuo caro viso. Non io partire ti vedrò gioioso. Ne tu r insegne vestirai del riso ; Ma pria lordo di polve i bianchi crini Io piangerò gli avversi miei destini. 248 l'K Ni»Z/K IH TKTiDK E PELEO. Poi sul pino maggior del tuo naviglio Vele vo' porre colorate in nero Che siano indizio, a chi vi volge il ci^dio, Del mio dolor eh' è sì cocente e fiero. Che se d' Itono la gran Diva, o figlio, Che ognor di nostra schiatta e dell' impero Fu scudo, ti darà che del nefando Tauro nel fianco insanguini il tuo brando; Ricorda, o figlio, ne dal cor giammai T' esca il mio detto : appena la nativa Discovrirassi a' vigili tuoi rai Per tanto tempo sospirata riva. Fa' che calino tosto i marinai L' infausto panno; e candida e festiva Suir albero maggior la vela ascenda, Tal eh' io da lungi le mie gioie apprenda. : Questo ricordo che sì saldo stette Finora in mente di Teseo, leggera Nebbia allora sembrò, che dalle vette Spazzan dell' alpe i venti a primavera. Ma '1 padre che sedeva alle vedette Sovra una rupe, da mattina a sera Il mar spiando con pupille immote E due rivi di pianto in sulle gote. LE NOZZE DI TETIDE E PELEO. 249 L' atteso legno come vide in prima Con brune vele dirizzarsi al porto, Disanimato come quei che stima Il figlio suo dolcissimo già morto, Tratto di senno dall' aerea cima Precipitossi e nel mar giacque assorto. Allora Teseo entrò le auguste porte Funeste ancor per la paterna morte. E tal di suo fallire ebbe mercede E d' un colpo fortuna lo percosse, Quale per sua perfidia egli già diede Alla vezzosa figlia di Minosse; La qual piangendo la tradita fede Guata la nave che pel mar già mosse, Triste, affannata, in preda tuttaquanta Air immenso dolor che il cuor le schianta. Ma d' altra parte nel tappeto aurato Bacco volava di letizia pieno, Dai Satiri saltanti accompagnato E dal suo fido vecchi erel Sileno, Te cercando. Arianna, ed infiammato Delle divine tue bellezze il seno. I suoi seguaci intanto ebbri e satolli Per le valli trescavano e pe' colli. 260 LK NOZZE DI TETIDE K l'ELEO. Ohe gridando, squassano i capelli : Chi scuote il tirso : con adunche mani Qual degli uccisi buoi strappa le pelli E ne disperge i sanguinosi brani; Questi van cinti di serpenti : quelli Ne' dischiusi canestri i riti arcani Stan compiendo in disparte, orgie tremende, Che orecchio di profani non intende. Col pugno sollevato altri percote I risonanti concavi timballi ; Altri desta agitando argute note Da' tintinnanti tremoli metalli ; Qual poste al corno le gonfiate gote Di lungo reboato empie le valli, Cui del flauto barbarico si accorda Orribile stridor che i campi assorda. Di sì vaga pittura e sì pomposa II tappeto regal sparso ridea, Che il letto ricopria, dove già sposa Dormito avrebbe la leggiadra Dea. Poi che r accorsa gioventù bramosa Di mirar fu satolla, il pie togliea ; Il pie toglieva riverente e muta. Dando loco de' numi alla venuta. LE NOZZE DI TETIDE E PELEO. 251 Quale al soffiar d' un zefiro clemente S' incalzano nel mare onde sovr' onde, Mentre 1' aurora ascesa in oriente Annunzia il sol che più non si nasconde ; All' alito leggier procedon lente E con tenue romor batton le sponde; Poi crescono col vento a poco a poco E splendon da lontan, come di foco : Tal dalle soglie del regal soggiorno Le accolte innumerabili persone Pe' campi si spandevano e ritorno Facea ciascuno alla natal magione. Di tanta folla non sì tosto intorno Furo sgombre le vie, primo Chirone Dalle vette del Pelio discendea E doni boscherecci in mano avea. Quanti più vaghi fiori ornan le rive ; Quanti n' educa sugli eccelsi monti La selvosa Tessaglia o V aure estive Crescon sul fresco margine de' fonti, Stretti in ghirlanda, delle belle Dive Chiron portava a coronar le fronti : Posolli appena, che d' un casto odore Riser beate l' intime dimore. 252 LE NOZZE DI TF/riDE E l'ELEO. Venne il Penèo, che delle muse a' cori Abbandonava le convalli erbose Della sua Tempo, fra sublimi orrori Di foresta antichissima nascose ; Alti faggi portava e dritti allori Svelti allora dal suol, pioppo ramose. Non senza larghi platani fronzuti E cipressi che al ciel poggiano acuti. Tai piante intorno alle superbe mura Il Dio poneva in ampio giro e spesso. Perchè lieto d' orezzo e di verzura Dell' augusta magion fosse V ingresso. Segue Prometeo ; né di quella dura Catena più già porta il segno impresso, Che lo stringea, quando alla rupe affisso Pendea dalP alto sulP aperto abisso. Colla consorte veneranda Giove Scende e co' figli dall' Olimpo : il piede, Febo, tu solo rivolgesti altrove E la tua suora clie suU' Ida ha sede ; Che uguale contro Peleo ira vi move Per le temute nuziali tede. Lieti gli Dei si assisero al convito, Che di superbe dapi era imbandito. LE NOZZK 1)1 TF/riDK K VKÌAJ). 253 E sedean banchettando. Intanto chine Per molta etade e tremolanti al canto Dan le Parche principio. Alle divine Membra avvolgono intorno un bianco manto Con roseo lembo, e portan bende al crine Che alle nevi in candor tolgono il vanto ; La man però dall' opera non cessa E r eterno lavor segue indefessa. Regge la manca la conocchia avvolta Di molle lana: il fil la destra ingiuso Trae con dita supine e poi rivolta Torce vibrando in presti giri il fuso. Menda nelP opra non appar che tolta Non sia dal dente ognor ; tal che per uso Sparse le Dee di morsecchiati fili Mostran le labbra pallide e sottili. Deposte a' loro piedi ampie fiscelle Serbano i velli della bianca lana. E n'eran colme, allor che le Sorelle In voce che sonava oltre l'umana Impresero a cantar quanto le stelle Già fisso avean per ora non lontana. Versi cantar che i posteri più tardi In ninna parte troveran bugiardi. 254 l'K NOZZE DI TKTIDK K PKLKO. « 0 Peleo invitto, o grande e generoso Fermo sostegno dell' Emonio trono, Tu che tanto pel figlio andrai famoso, De' veri vaticini ascolta il suono. Voi frattanto segnando il calle ascoso Alle sorti che ancor nate non sono, Aggiratevi, o fusi, e tosto ordita Tosto per voi sia dell' eroe la vita. Già spunta in ciel dalle marine spume L' astro caro ad amor: la tua diletta All' apparir del sospirato lume A' tuoi beati talami s' affretta ; E posando al tuo fianco in sulle piume Le braccia intorno al collo ambo ti getta. x\ggiratevi, o fusi, e tosto ordita Tosto per voi sia dell'eroe la vita. Mai non fur visti più giocondi amori Rallegrar le domestiche pareti; Né mai fu visto più concordi cori Legare Amor di vincoli sì lieti. Come i soavi vincoli di fiori Che '1 Tessalo garzon legano a Teti. Aggiratevi, o fusi, e tosto ordita Tosto per voi sia dell' eroe la vita. LE NOZZE DI TETIDE E PELEO. 255 Sposi leggiadri, a voi daran le sfere Achille, l'imperterrito campione, Cui ben sapranno le contrarie schiere Se dorso o petto opponga alla tenzone. Vincitor fia che stampi orme leggiere, Correndo colle cerve al paragone. Aggiratevi, o fusi, e tosto ordita Tosto per voi sia dell' eroe la vita. Eroe nessun di sé tanto confidi Che gli contenda nelle pugne il vanto. Quando vermigli pe' troiani lidi Di sangue andranno Simoenta e Xanto; E le mura abbattendo i prodi Atridi Ilio porranno e tutta Frigia in pianto. Aggiratevi, o fusi, e tosto ordita Tosto per voi sia dell' eroe la vita. Fede pur esse di sua impavid' alma Faran le madri nell' immenso aifanno. Quando de' figli sull' estinta salma Di cener brutto il crin discioglieranno, E gli egri petti coli' inferma palma Consunte di dolor percoteranno. Aggiratevi, o fusi, e tosto ordita Tosto per voi sia dell'eroe la vita. 256 LK NOZZE DI TKTri»K K PKIìRO. Quale ne' campi, se tra folta biada In sul merìggio il mietitor si mise, Sotto la falce che la via dirada, Le bionde spiche cadono recise; Tal dietro sé Pirresistibil spada Un monte lascierà di genti uccise. Aggiratevi, o fusi, e tosto ordita Tosto per voi sia dell'eroe la vita., De' mille e mille che da lui fien vinti. Coir Ellesponto parlerà dolente Lo Scamandro che i flutti orridi e tinti Volve del sangue della teucra gente; E per r ingombro de' gran corpi estinti Move più lenta al mar la sua corrente. Aggiratevi, o fusi, e tosto ordita Tosto per voi sia dell' eroe la vita. Anco sepolto interminabil guerra Farà co' Teucri, ancora avrà sue prede. Allor sull'alto tumulo che il serra, Porre vedrassi il delicato piede Regal fanciulla, e cader tosto a terra Sotto il vindice ferro che la fiede. Aggiratevi, o fusi, e tosto ordita Tosto per voi sia dell' eroe la vita. LE NOZZE DI TETIDK E PELEO. 257 Perocché d' Ilio le gran mura appena Rovesciate saran dal ferro argivo, Che del tuo sangue, o bella Polissena, Correr farai su quel sepolcro un rivo; Quando, qual ostia che agli Dei si svena, Sul ginocchio cadrai di lena privo. Aggiratevi, o fusi, e tosto ordita Tosto per voi sia dell'eroe la vita. Dunque, sposi, su via, petto con petto. Alma con alma si confonda insieme. Ne' suoi talami accolga il giovinetto La pudibonda vergine che teme. Né la candida Teti abbia a dispetto Se Dea le coltri d'un mortale or preme. Aggiratevi, o fusi, e tosto ordita Tosto per voi sia dell' eroe la vita. Domani come il giorno in ciel risplenda, Col bel nastro di prima la nutrice Più non potrà, se a visitarla ascenda, Alla fanciulla cinger la cervice. A' nipoti pensando i lai sospenda Anch' essa l' accorata genitrice. Aggiratevi, o fusi, e tosto ordita Tosto per voi sia dell'eroe la vita. » ZANr.i,i,A. 17 258 LK NOZZE DI TKTIDE E PELEO. Tali cantando avventurosi auguri Le nozze festeggiar de' divi amanti Le veridiche Parche, a' dì venturi Il vel squarciando co' celesti canti. 0 bella- etade ! allor solean ne' puri Alberghi de' mortali i numi santi Calar sovente dall'eterea sfera, Che pietade derisa ancor non era. Ne' suoi fulgidi templi allor scendea Giove ogni anno a' bei riti, e di cavalli E di rote volubili vedea Ferver di Creta i polverosi calli; E Bacco sul Parnaso conducea Delle sue donne scapigliate i balli. Mentre il popol di Delfo uscendo a gara Onorava il gran Dio d' incenso e d' ara. Spesso fra V ire della pugna atroce Marte allora si vide: e senza benda 0 la regina del Triton veloce 0 la Rannusia vergine tremenda Esortar con la mano e con la voce Le armate schiere alla tenzone orrenda. Ma poscia che la terra infetta e rea Fu di delitti e posta in bando Astrea; LE NOZZE DI TETIDE E PELEO. 259 Poi che del sangue del fratel vermiglio Fessi il fratello ; ed efferati i cori, Vider la prole con asciutto ciglio Scendere nella tomba i genitori; Bramò la morte dell'adulto figlio Per passar senza biasmo a novi amori Lo snaturato padre, ed empie e sozze Celebraro le madri inceste nozze; Né da tanto furore i penetrali De' domestici numi andaro intatti ; Fatto più scarso il ben; cresciuti i mali, Conculcate le leggi, infranti i patti; Ben parve iniqua stanza agP immortali Questa terra di sangue e di misfatti. Quindi più non vi scendono ; o ritorno Fan tosto in ciel pria che li colga il giorno. PROPONIMENTO Carme Vllf delt.o Stesso. Illuso Catullo, Dimetti, dimetti Di farti trastullo A speme volgar: Fuggiti diletti Non sanno tornar. Ti fulsero un giorno Ben candide aurore, Movendo al soggiorno Di cara beltà, Amata d' amore Ch' egual non avrà. PROPONIMENTO. 261 Che dolci sorprese Là dentro si fero, Da lei non contese, Volute da te! Dì candidi in vero Il cielo ti die. Or ella diniega; Tu pure desisti: È folle chi prega Ritrosa beltà. Sta' saldo, resisti, Di marmo ti fa'. Mia perfida, addio. Di sasso, mei credi, Già fatto son io: Dacché noi vuoi tu, Non fia che a' tuoi piedi Mi vegga mai più. Crudele! Ma sai Qual vita ti aspetta? Che visite avrai? Che amici? da chi Or bella tu detta? L' amante di chi? 2^)2 PU(iI>(»NMIKNTO. A quale i tuoi 1)aci Amato fanciullo Ardenti, mordaci Pian dati? Ma stn' Tu saldo, Catullo, Di marmo ti fa'. CONGEDO. Carme XI dello Stesso. Furio ed Aurelio, di Catullo amanti Indivisi compagni, o eh' ei del Gange Tenda ai lidi, ove il mar indico frange L' onde sonanti ; 0 che agr Ircani e dove molle odora Arabia, ai Parti onusti di saette, A' Saci e dove il Nilo il mar con sette Foci colora; 0 ch'oltre le sublimi Alpi viaggi Del gran Giulio mirando i monumenti, Vegga il gallico Reno, i truculenti Angli selvaggi; Pronti meco a tentar questo o se prova Altra più perigliosa il ciel ni' appresta. Alla mia donna nunzi ite di questa Infausta nuova; 264 CONGEDO. Viva pur ella avventurosa e rida Co' trecento suoi drudi, che congiunti Tiene ad un laccio e tutti manda emunti A tutti infida; Né più riguardi all'amor mio, caduto Per colpa sua, come sulP orlo cade D' un prato il fior che oltrepassando rade Vomere acuto. PROMESSA. Carme XXXXV dello Stesso. (Imitato liberamente.) Accanto alla sua Fillide Elpino un giorno assiso Così (licea fissandole Le ardenti luci in viso: « 0 mia delizia, o Fillide, Mia vita, se non t' amo. Il resto del mio vivere Trapassi oscuro e gramo; Gioie per me non rechino Autunno o primavera; Cinto di foschi nuvoli Corra il mio giorno a sera. Se di tua fé dimentico, A' giuri miei bugiardo Tu mi vedrai rivolgere Ad altro volto il guardo, 266 PROMESSA. Di subita caligine Si velin gli occhi miei. Mesta vederti e vivere No, cara, io non potrei. Ma t'amo: inestinguibile Per te m' accende amore ; Io t' amerò, mia Fillide, Insino air ultime ore. » Diceva; e queir ingenua Strettasi al sen tremante, Cader lasciava un fervido Bacio sul bel sembiante. Sorrise Fille; e in porpora Tinta il modesto aspetto Rispose in questi teneri Accenti al suo diletto: (( Il ciel così propizio Al nostro amor sorrida. Come fo giuro d' esserti Ognor costante e fida. Compagno de' miei gaudii, Compagno degli affanni. Mi vestirai d' un roseo Lume il sentier degli anni. PROMESSA. 267 Oh, come m' arde 1' anima Del latte del mio petto Nudrir vezzoso bambolo Pegno del mutuo affetto! "O' Oh, come anelo accoglierlo Vispo su' miei ginocchi, E la paterna immagine Mirar ne' suoi begli occhi ! » Qui tacque Fille; e al tacito Garzon che tutto ardea, I rai chinando, il bacio Dolcissimo rendea. Così nel casto vincolo Felici amanti e sposi Fille ed Elpin consumano I giorni avventurosi. Elpin della sua Fillide Sol è beato, e PlUe Ha messo ogni suo gaudio D' Elpin nelle pupille. IL SOGNO. Elegia IV del Libro III ALHIO TIBULLO. Fato miglior mi volgano gli Dei, E r orribile sogno non s' avveri Che s' offerse sulP alba agli occhi miei. Itene lungi, o mobili e leggeri Della notte fantasimi; che vani Io vi conosco a prova e menzogneri. Solo gli Dei rivelano gli arcani; E leggon segno de' venturi mali Nelle fumanti viscere i Toscani. Per r aria tenebrosa incerte V ali Battono i sogni, e di folli paure Conturbano il riposo de' mortali. I IL SOGNO. 269 Ma la schiatta dell' uom nata alle cure Con farro e sai, che crepita sul foco, Placa le larve della notte oscure. E nondimen, sia che ne' sogni loco Abbiasi il vero; sia che frodolenti De' mortali la fé prendansi a gioco. Della trascorsa notte i rei portenti Volga in meglio Lucina, e non permetta Ch' io scevro d' ogni colpa invan paventi ; Se mai non fu d' alcuna macchia infetta Questa mia destra; né parola altera Contro gli Dei con empio labbro ho detta. Già notte avea della stellata sfera Compiuto il giro e nell' equoree spume Lavava gli assi alla quadriga nera; E non ancora le tranquille piume Il sonno sul mio capo avea distese. A' travagliati non amico nume. Alfin neir ora che il mattino ascese In oriente, sullo stanco letto Un sopore dolcissimo mi prese. 270 IL SOGNO. Qui veder mi pareva un giovinetto Cinto le tempie d' immortale alloro Scendere a tacita orma entro il mio tetto. Più schietta leggiadrìa, pari decoro Mai non fu visto dall'antiche genti; Né mai V arti sudaro egual lavoro. GP intonsi crini, lunghi e rilucenti Sovra il collo cadevano stillanti Larga rugiada d' odorosi unguenti. Diffuso era un candor ne' bei sembianti Qual è quel della luna; e neve e rosa Era il bel corpo che sdegnava ammanti. Tale il colore di novella sposa, Quando nel velo nascondendo il ciglio Segue il marito onesta e vergognosa: Tale il color, se 1' amaranto al giglio Accoppian le fanciulle; e tale il melo Fassi in autunno candido e vermiglio. Adombravano il piede, che del cielo Dai nitidi sereni si diparte, Gli aerei fluttuanti orli del velo. IL SOGNO. 271 Una lira, lavor raro delP arte, Tutta d'oro e testuggine contesta Portava appesa alla sinistra parte.. Come innanzi mi fu, trasse da questa Lento un preludio e sciolse all' aure un canto Onde anco la dolcezza in cor mi resta. Poi che le corde seguitaro alquanto L' inno celeste, il roseo labbro ei schiuse In questi detti a me nunzi di pianto: « Salve, amore de' numi; che le Muse E Bacco e Febo arridono al cantore In cui candide voglie il cielo infuse. Ma la prole di Semele e le Suore Abitatrici dell' ascrea pendice Dell' avvenir non leggono il tenore. Antiveder gli eventi a me sol lice; E di Giove mio padre inclito dono Se soltanto il mio labbro il ver predice. De' detti miei non mai fallaci il suono Odi, 0 poeta; e ti riponi in seno Quanto io nume di Cinto ti ragiono. 272 II, SOGNO. Colei che tu cotanto ami, che meno Tenera figlia alla sua madre è cara, Giovinetta all' amante è cara meno ; Colei per cui de' numi innanzi all' ara Tu fai voti; colei che giorni ed anni Viver t' astringe in incertezza aìnara ; Ed allor che la notte co' suoi vanni Il mondo oscura, alla tua mente illusa Mille tesse amorosi acerbi inganni; Quella bella Neera, alla tua musa Argomento perenne, altri, spergiura, In cor vagheggia, e 1' amor tuo ricusa. Empia! E trafitta da novella cura Lascive nozze medita; né gode Più le sante abitar natali mura. Ah, tutte d' un color, se il ver se n' ode. Perfida razza e senza core! Pera Qual ordisce all' amante iniqua frode ! Pur, come sai, mutabile è Neera: Donna è pronta alle paci. Or tu la speme Desta e lagrime aggiungi alla preghiera. IL SOGNO. • " 273 Un indomito amor fatiche estreme Insegna a tollerar: verghe e tormenti, Quando spira verace, amor non teme. Ch' io d' Admeto pascessi i bianchi armenti Fatto pastor, non credere che sia Fola canora di giocose menti. Meco non era allor la cetra mia; Né potea de' sonanti inni la piena Disposar delle corde all' armonia ; Ma sovra rozza boschereccia avena Io, di Latona il gran figlio e di Giove, Rustico carme modulava appena. Nella corte d' amor sono ben nove L' orme tue, .giovanetto, se non sai Curvar le spalle a simiglianti prove. Dunque persisti, né ritrarti mai Dalla preghiera: non é cor sì duro Che alfin non ceda agli amorosi lai. Che se da' miei delubri non oscuro Esce il responso, e quanto il ferreo dito Scrive de' fati io leggo nel futuro, Zanella. IB 274 IL SOGNO. Dille : nel cielo è questo nodo ordito ; Fortunata Neera, un Dio t' avverte, Se in traccia non andrai d' altro marito. » Disse. Veloce dalla salma inerte Il sonno dileguossi. Ah , eh' io non miri Tante e sì gravi mie sventure aperte! Ch' io non sappia giammai che i tuoi desiri A' miei sono contrari ; che mentita La pietà, che fur falsi i tuoi sospiri. Già tu non sei da' tempestosi uscita Gorghi del mare, né le divampanti Fauci della chimera a te dier vita; Né te Cerbero cinto di fischianti Colubri la tergemina sua testa; E non Scilla, terror de' naviganti ; Né nudriro in inospite foresta Le fulve leonesse, in suol romano Te nata di gentil progenie onesta. E tal t' é madre, di cui cerchi invano Altra più mite ; e tal t' è genitore. Se altri visse giammai, dolce ed umano. IL SOGNO. 275 Che se premio si deve a un fido amore, Gli Dei cangino in riso il mio sgomento, E l'orribile sogno ingannatore Pel remoto oceàn dissipi il vento. SAFFO A FAONE. K l{ O 1 1) E PUÌU.H) OVIDIO NASONK. Ascoltami, Faon : quando su qu'.sti Sudati fogli il tuo sguardo s' affisse, Tosto r amica man riconoscesti ? 0 se il nome di Saftb, che li ocrisse Non vi leggevi, ti taceva il core Questo tenue lavor donde venisse V E forse chiederai, perchè d'amore L' inno sulla mia cetra oggi non suoni. Ma d' elegia mestissima il tenore. È flebil r amor mio : flebili toni . Ha r elegia : non fa col mio tormento La gioia delle liriche canzoni. SAFFO A FAONE. 277 Ardo, come ne' solchi arde il frumento Che dell' arida state il raggio indora, Se le fervide vampe agiti il vento. Lungi dagli occhi miei Faon dimora Dell'Etna appiè.; né dell'Etneo men fiero È r incendio che dentro mi divora. Già più carmi non tempro al lusinghiero Suon della lira : le pimplee Sorelle Aman sereno e libero il pensiero. Né più le giovinette a me son belle Di Metinna e di Pirra ; io più non curo I vezzi, 0 Lesbo, delle tue donzelle. Care Cidna, Anattorie un dì mi furo Che or mi son vili ; d' Attide a' miei rai II roseo volto pur s'è fatto oscuro, E d' altre molte che una volta amai D' immenso amore. 0 perfido Faone, Quel cor, eh' era di molte, or tu sol hai. In te viso giocondo, in te stagione Tempestiva agli amori. 0 a me fatale Sembianza del bellissimo garzone ! 278 SAFFO A FAONE. Prendi in mano la cetera e lo strai < Febo sarai : coir ellera alle chiome A Bacco diverrai tosto rivale. E Febo e Bacco all' amorose some Piegaro il collo; né cercar perdono S' era a Clio di lor Ninfe ignoto il nome. Ma le bionde Pegasidi a me dono Fer d' amabili versi ; e già si spande Alto nel mondo di mia fama il suono. Né più frequenti Alceo colse ghirlande, Mio fratel nella patria e nella lira, Benché tempri le corde a suon più grande. Se nata io sembro alla natura in ira. Che men bella mi fé, largo conforto M' é '1 poetico nume che m' ispira. Piccola io son : ma dall' occaso all' orto Volo col nome ed empio i monti e 1' acque Sola di tanti lauri il fascio io porto. Se candida non son, però non spiacque A Perseo 1' etiopica donzella Bruna il volto dal Sol sotto cu: nacque. SAFFO A FAONE. 279 Né rifugge la bianca colombella Dal nero sposo ; e '1 verde augello in traccia S' aggira della bruna tortorella. Che se pari alla tua cerchi una faccia, Non fìa che tu ritrovi o ninfa o dea Che sia degna posar nelle tue braccia. E pur bella a' tuoi sguardi anch' io parca, Quando leggevi i miei versi : fra cento E cento vati io sola ti piacea. Cantava, oh, come spesso io lo rammento ! Che nulla obblian gli amanti ; e tu co' baci Rompevi sulle mie labbra 1' accento. Tutto in me ti rapiva ; e se in tenaci Teneri nodi ti serrava al petto. Le soavi d' amor ire e le paci, Gli arguti motti, l' infocato affetto, I sorrisi, le lagrime, i deliri T' empiean d' inenarrabile diletto. Le belle Siciliane a' tuoi sospiri Ora son segno. Acche più Lesbo ho 'n core? Oh, r aure di Sicilia anch' io respiri ! 280 SAFFO A FAONK. Ma voi r obbrobrioso disertore Deh ! tosto riinandate al nostro amplesso, Nisiadi madri, e voi, Nisiadi nuore. Guardatevi da lui che vi vien presso Col mèi sul labbro ; quel che a voi prometti A me lo sciaurato avea promesso. E tu, madre d' Amor, che sulle vette D' Erice hai templi, accorri alla meschina Che i suoi giorni e la lira a te commette. 0 forse dal suo corso non declina La nemica fortuna? E reo governo Di questa sventurata a far si ostina? Sei volte appena ritornare il verno Io visto avea, che nella vuota stanza Bagnai di pianto il cenere paterno. Il mio fratel degli avi ogni sostanza Sperse in luride tresche ; il vitupero E r unico retaggio che gli avanza. Or sovra un pino airaiire leggero Corre i golfi e terribile corsaro Si getta a racquistar Toro primiero. SAFFO A FAONE. • 281 Ma perchè degno biasmo in me trovare L' opre sue bieche, ei m' odia. Ecco il bel frutto Che i pietosi consigli mi recaro. E perchè mai non abbia il ciglio asciutte, Piccola figlia, o mio destin crudele ! Scherzami intorno a raddoppiarmi il lutto. Tu novissima causa alle querele Mi sei, Faone. 0 come repentini Si cangiarono i venti alle mie vele! Ecco negletti per le spalle i crini Cascano : in dito più non mi sfavilla Lo splendore degl' indici rubini. È rozzo . il mio vestir : V oro non brilla Più gul mio capo ; né 1' assiro unguento Dalle scomposte mie trecce distilla. E per chi deggio ornarmi? A chi più tento Io misera piacer, se que' begli occhi Più non miro, cagion d' ogni ornamento ? Cuor non havvi, ove Amor suoi dardi scocchi Più che nel mio ; perchè s' accenda ed ami Basta lieve favilla che lo tocchi. 282 SAFFI) A FAONK. Sia che volgendo i miei vitali stami Tal legge mi cantassero le Suore, Di roseo fil tessendo i miei dì grami ; Sia che gli studi, a' quali ho posto il core, A lor costume informino 1' affetto. Me già fece Talia serva d' amore. Che stupir se mi vinse un giovanetto Cui r età fresca appena il mento infiora, Nato a scaldar qual è più freddo petto ? Questi io temea che tu, scherzosa Aurora, Detto a Cefalo addio, non mi togliessi ; Ma frenarti Titon seppe finora. Se tu che tutto vedi lo vedessi. Candida Luna, come Endimione Dormirebbe Faon sonni più spessi. E Citerea 1' amabile garzone Seco trarrebbe in ciel: ma paurosa Del fiero Marte evita la tenzone. 0 tra fanciullo e giovane, vezzosa Utile etade ! 0 candido sembiante Onde r umana schiatta è gloriosa ! SAFFO A FAONE. 283 Torna, torna, leggiadro, al palpitante Mio sen ! Non chieggio che tu deva amarmi ; Soffri solo eh' io possa esserti amante. Scrivo ; e r impresse note a cancellarmi Diffuso pianto dalle ciglia piove: Vedi che appena tu discerni i carmi. Che s' eri fermo ornai girtene altrove, Addio, Saffo, perchè non mi dicesti? Io non chiedea dall' amor tuo gran prove. Ah, non gli ultimi pianti e non avesti Gli ultimi baci, o caro; ed io già scorti Non ho quai m'attendean fati funesti. Di me tranne l' ingiuria altro non porti ; Non un mio pegno, un mio vezzo non hai Che di memoria l' amor tuo conforti. Lassa! e ricordo alcun non ti lasciai; Io sol detto t' avrei che tu volessi Ricordarti di me che vivo in guai. Per Amore io ti giuro, il qual non cessi Giammai da' nostri cori, e per le Muse Che de' foschi miei giorni arbitre elessi ; '2^1 SAFFO A FAOVK. Quando il subito grido si diffuse, — Saffo, il tuo ben sen fugge, — alla parola E alle lagrime il varco mi si chiuse. Mancava agli occhi il pianto; nella gola La lingua intorpidia, finché dell'alma Tutte le posse un freddo orror m' invola. Poi come balenò raggio di calma All' ansio cor, le chiome io mi scompiglio Alto ululando, e batto palma a palma. Tale il sen si percote e bagna il ciglio Tenera madre che all' accesa pira Porti le membra di diletto figlio. Carasso, il fratel mio, lieto rimira I nostri pianti e per la casa ognora Importuno sugli occhi mi si gira, E perchè la gran doglia che m' accora Onta mi faccia, di che geme, ei chiede, Costei? Non vive la sua figlia ancora? Ho lacera la veste e scalzo il piede; Pur rossore non ho se il volgo intorno In SI misera mostra errar mi vede. SAFFO A FAONK. 285 A te, Faon, sol penso e tu ritorno Mi fai solo ne' sogni. 0 sogni, o notti A me candide più d' ogni bel giorno ! Se altre terre a l)ear si son condotti I tuoi sembianti, io V ho ne' sogni appresso. Ahi sogni fuggitivi ed interrotti! Spesso eh' io penda dal tuo collo e spesso Che tu sovra il mio collo t'abbandoni Panni, o diletto, nel sognato amplesso. E dolcissimi accenti mi ragioni Noti all' ombre soltanto e senza velo La tua beltade a vagheggiar mi doni. Ma tosto come il sol gli orli del cielo Col novo raggio imporpora, che presta Si ritiri la notte io mi querelo. E mi volgo crucciata alla foresta, E pace alla solinga ombra dimando Che sì dolci memorie in cor mi desta. Quindi furente, di me stessa in bando, Come maga tessalica m' aggiro, or irti capelli all' aure abbandonando. '•^S6 SAFFO A FAONE. E la concava grotta ancor rimiro Scabra di tufi che mi fur più belli Che niveo marmo a' dì del mio deliro. Riveggo il bosco che di fior novelli Spesso un letto ne porse e tanto amore Fra r ombre ricoprì degli arboscelli. Ma dove della selva e del mio core Sparve il signor ? M' è quella selva oscura Dal dì che n' è partito il tuo splendore. L' erba conobbi che all' estiva arsura Ne sostenne adagiati : ancora oppressa Era dal nostro peso la verzura. Forsennata precipito sovr' essa, Sul sito ove tu fosti, e baci e pianto Porgo ad ogn' orma da' tuoi piedi impressa. E meco dispogliato il folto ammanto Piangono i rami; né dal nido ascoso Sciolgono allegri gli augelletti il canto. Progne, tu sola del trafitto sposo Memore ancora e de' tuoi rei furori Iti vai gorgheggiando in suon doGjlioso. SAFFO A FAONE. 287 Progne il figliuolo, i suoi traditi amori Saffo lamenta: tutto il resto tace Per entro il velo de' notturni orrori. Sorge non lungi limpida e vivace Una fontana ; se la fama è vera, Una Dea nelle belle acque si piace. Antico loto, che una selva intera Co' rami adegua, è tetto alla sorgiva Coronata di verde primavera. Mentre vinta dal sonno in sulla riva L'inferme membra adagio, al mio cospetto Stette del loco la temuta Diva. Stette e mi disse : poiché t' arde in petto Non corrisposto amor, volgi il tuo passo Volgi all'Ambracia, e pace io ti prometto. Di Leucade colà sorge il gran sasso Sacro al vindice Apollo: interminato Spuma, il mar d' Azio e romoreggia al basso. Deucalion di Pìrra innamorato Di là gittossi e lo raccolse illeso L' onda soggetta. Come volle il fato 288 HAKFC.» A FAONE. Tosto amor rautò tempre: a Pirra acce> Gemè '1 cor: per la giovane diletta D' mi alto obblio Deucalìon fu. preso. Questa sorte ha quel mar. Donna, t' affrettai Alla nembosa Leucade e nell'onda Dalla pendice aerea ti getta. Disse e disparve. Dall' erbosa sponda Io m' alzo esterrefatta, e gemo e fremo, E di lagrime un fiume il sen m' inonda. I Andremo, o Diva, al fatai sasso andremo : ! Pur che il furor che m' agita dia loco. Piombar nelle spumanti onde non temo. La rupe, il mare, V alto abisso un gioco Mi sembreranno. 0 aure, a voi mi affido; Fatta io son lieve dal continuo foco. E tu pur sulle molli ale. Cupido, Cadente mi sostieni. Oh, di mia morte L' onta non pesi sul Leucadio lido ! AUor r eolia cetera alle porte Appenderò del tempio, e questi versi Febo ringrazieran della mia sorte: SAFFO A FAONE. 28D « Grata a te, Febo, questa cetra offersi 10 Saffo poetessa; a te conviene E a me che studi non abbiam diversi. » Ma perchè d' Azio alle fatali arene Mi sospingi, 0 crudel, se tu possanza Hai, tornando, di tonni alle mie pene? Torna, Faone : io posi in te speranza Più che in quel mare, in te che di sapere Superi Apollo e di gentil sembianza. 0 forse più di queste atre bufere. Più de' sassi crudel, con lieto volto Potrai veder la tua donna che pére? Meglio era pur che fra tue braccia avvolto Fosse il mio seno d' amorosi nodi Che lasciarlo cadere in mar travolto! Questo è quel seno che di tante lodi Già tu solevi ornar; donde aurea vena Sgorgar ti parve di canori modi. Or vorrei che di carmi immensa piena Versasse: ma le vie chiude il dolore, 11 dolor che V ardito estro incatena. Zanella. 19 290 SAFFO A KAONK. (Jià manca a' voli deir acceso core 1/ antica lena; mute e polverose Giaccion le corde che sonar d' amore. Belle Lèsbidi, voi, vergini e spose, Gioia del patrio mar, leggiadre amanti Sulla cetra di Saffo un dì famose, lièsbidi, voi che i fulgidi miei vanti D'alcuna ombra spargete, ah, non venite Più d' ora innanzi a domandar miei canti. Le P'ieridi mie tutte fuggite Soìi con Faone.... ah misera, che mio Quasi il dicean le labbra inavvertite. Fate eh' ei torni, e co' begl' inni anch' io Farò ritorno a voi. Come egli vuole Tacita io siedo, o carmi all' aure invio. Ma che giova pregar? Forse si duole Quel cor selvaggio? 0 prende i pianti a sdegni E disperdono i venti le parole? Deh! che a me riconducano il tuo legno. I venti che ti portano i miei stridi; Tempo è ben che tu rompa ogni ritegno. SAFFO A KAONE. 291 Che se hai fermo il ritorno a' patrii lidi Ed al reduce pin serti prepari, Perchè, crude!, coli' indugiar mi uccidi ? Sciogli la fune. A te tranquilli i mari Farà la Diva che dal mare è sorta. Ne venti al corso spireran contrari. Sciogli la fune. Amor piloto e scorta Sederà 'n poppa, e con la nivea mano Tratterà 1' artimone e la ritorta. Che se da Sallb vivere lontano Hai già fisso in tuo cor (io più non voglio, (Udir le scuse che colori invano), , Alla tradita invia 1' ultimo foglio, Tronca una volta gl'infelici amori; Scrivi: che speri? Dal Leucadio scoglio Piomba nel mare che t' è sacro, e muori. ERO A LEANDRO. Ehoide dem.o Stesso. Vuoi che r egro mio spirto io rassereni, Come il cortese tuo foglio m' invita ? Getta la penna, mio Leandro, e vieni. A chi triste in desio mena la vita Fassi un' ora mille anni. Io t' amo, io t' ani E fieramente il tuo tardar m' irrita. D' immenso foco parimenti ardiamo ; Ma se d'amore son le fiamme eguali, Di tempra eguali e di vigor non siamo. Noi che le membra abbiam tenere e frali Noi fanciulle di cor siamo men forti. Vieni, 0 vinta io soccombo a tanti mali. ERO A LEANDRO. 293 Voi la caccia trastulla: in bei diporti Alla quiete di campagna amena I lunghi giorni a voi paiono corti. Ora il fòro vi chiama; or nell'arena Scendete unti alla lotta, o d' un corsiero Affaticate la fumante schiena. Or a pesci ed augelli il giorno intero Sedete insidiando, e l'atra cura A vespero tuffate entro il bicchiero. Tali trastulli a noi vieta natura; E che far ci riman, se non V amore, V Chiuse neir ombra di guardate mura ? ''E di te tutte quante occupo io l'ore; Tu segreto mio studio e mio tesoro ; ' Né dir può lingua quel che sente il core. ,: Or di te parlo colla balia, e ploro ■ Con lei sommessamente e le cagioni Del tuo ritardo palpitando esploro ; Or riguardando il mar che gli aquiloni : Volgon sossopra, i tuoi lagni ripeto, Imprecando de' venti alle tenzoni ; 294 KKU A I.KANDKO. 0 per poco che torni il mar (luieto, Che la voglia ti manchi e non la possa Io vo triste gemendo in mio segreto; Gemo accorata, e la pupilla ho rossa Di amaro pianto che con man tremante Terge la vecchia al mio marti'r commossa. Spesso un vestigio io vo delle tue i)iaiii» Per la sabbia cercando, e non rammento Quanto è mobil la sabbia ed incostante. E purché di te parli, ogni momento Io chieggo se sia giunto alcun d' Abido, 0 per Abido dia le vele al vento. E chi può dir quanti baci confido Alle tue vesti che da me partendo. Quando spunta il mattin, lasci sul lido / Tutto il mio giorno in queste cure io spende; Ma c;uando gli astri per la volta eterna Scoprono il viso scintillante, accendo Subitamente la fedel lucerna Suir altissima torre, onde il cammino Tu neir immensa oscurità discerna. ERO A LEANDllO. 295 Indi traendo alla conocchia il lino Io siedo e con femminei sermoni Inganno, come posso, il mio destino. Chiedi di che per tante ore ragioni ? Di vestiti 0 di danze io non favello ; Tu sol sulle mie labbra ognor risuoni. Pelisi, io dico, 0 nutrice, che all' ostello Leandro si sia tolto ? o che sian desti Tutti? e del padre ei tema e del fratello?" Credi tu che dagli omeri le vesti Ora deponga, e di salubre e schietto Olio le belle membra unger si appresti? Ella accenna che sì ; non che V affetto Nostro r agiti assai ; ma '1 capo antico Vacillante per sonno inchina al petto. Fatto un breve silenzio, adesso, io dico, Ei da riva si parte ; in questo punto Entra neir acque 1' animoso amico. Né filando un pennecchio anco ho consunto, Che la nutrice interrogo : ti pare Ch' ei possa a mezzo corso es.>ere or giunto ? 233 KUO A LEANDRO. Ed ainl)0 dal balcon guardiamo al mare, E preghiamo con timido desio Non ti sian T aure di soccorso avare. Ad ogni suon quella fedele ed io Tendiam V orecchio, e de' tuoi passi il suonc Trepide udiamo in ogni mormorio. Breve riposo alfine agli occhi io dono ; E languida sul sen della nutrice Questa infiammata mia testa abbandono. Sogno, e del vano mio sognar felice Tarmi vederti allor che le grondanti Braccia mi avvolga intorno alla cervice. Tu da me prendi gli odorosi ammanti A coprirti ; e mi dai baci e ricevi, Com' è r usanza de' beati amanti. Ahi, dolorosa ! che bugiarde e brevi Son le gioie de' sogni, e sugli albóri Tu, come sciolta vision, ti levi. Quando fia che più 1' onda i nostri amori A divider non abbia, e mite Iddio Stringa in nodo perenne i nostri cori ? ERO A LEANDRO. 297 Perchè soletta trapassar degg' io Tante vedove notti? E tu che fai Suir altra riva, nuotator restio ? Oggi son r onde paurose assai ; Eran ieri più basse ; or perchè colta Ieri la bella occasion non hai ? Ben gittata 1' hai tu, ma ti fu tolta Ieri dal vento : invan sarà che aspetti Più tranquilla marina un' altra volta. Vieni ; al mio fianco non avrai sospetti ; Noi le burrasche prenderemo a scherno, L' uno al collo dell' altro avvinti e stretti. Ridendo udremo il tempestoso verno Tonar sui flutti : io ben sarei contenta Se dell' onde il furor durasse eterno. Ma donde avvien che tema ora tu senta De' nembi ? perchè 1' onda che sicura Tante volte ti parve, or ti sgomenta? Ben mi ricorda che crucciata e scura La marina mugghiava al tuo venire ; Pure non valse a metterti paura. 298 EUO A r.KANDUO. Allor (liceii : tu mi farai morire Col soverchio ardimento. Or dove giace, Di', del valente niiotator l' ardire ? Ma che favello sconsigliata V Audace Tanto mai più non essere, o mio bene ; Né scendi in mar se pria noi vedi in pace. Basta che non sian rotte le catene Che i nostri cori allacciano, ne spento Cada il foco che n' arde oggi le vene. Il mar si muti, ed imperversi il vento, Mutando lato ; io non ho tema alcuna ; Ma che il tuo cor si muti, io mi sgomento. Pavento ancora che la mia fortuna Vii non ti sembri ; e tu nato in Abido Lei disprezzi che m Tracia ebbe la cuna. Ma tutto io posso tollerar, se infido Non ti ritrovi, né novello amore Il nostro antico amor cacci di nido. Se non fosse più mio quel nobil core. Onde mi venne sì profonda piaga, Preverrei col morir cotanto orrore. ERO A LEANDRO. 299 Né favello così, perchè presaga Sia la mente di danni, o dia credenza A roraori di fama incerta e vaga ; Ma di tutto io pavento ; e fu mai senza Paura vero amore? E di sospetto. M' empie pur sempre la tua lunga assenza. 0 felice colei che nel cospetto Vive ognor del suo vago e scerne il vero, Né sognato terror le agghiaccia il petto ! Verace torto o grido menzognero Io discerner non so : vero o bugiardo Ogni detto conturba il mio pensiero. Vieni, vieni una volta ; e del ritardo Sian cagione i parenti o la procella, Non d'altra donna lusinghevol guardo. Vuoi tu eh' io muoia alla fatai novella ? Vedi, Leandro, ignobile delitto La morte procurar d' una donzella. Ma perdonami, o caro ; il cor tralitto Io vo pascendo di paure : intanto È r onda che si oppone al tuo tragitto. 300 l'UO A LEANDIIO. Aìiimc, come riiiiugge a" lidi infranto L' ampio Ellesponto I e van le nubi e tutto Coprono il cìel di ferrugigno ammanto ! Forse in questa ora rinnovella il lutto D' Elle r antica genitrice e mesta I suoi pianti confonde al conscio flutto? Od Ino alla figliastra ancora infesta Sul mar che ha nome da costei, discende Tanta a destarvi orribile tempesta ? Fato nemico le donzelle attende Ognora in questo mar, che l' innocente Elle sommerse, ed or me crudo oflende. Ma tu, Nettuno, se ti rechi a mente Le antiche fiamme, perchè sei scortese A me che d' egual foco ho V alma ardente y S' è ver che col sorriso un dì ti prese Amimene, e co' begli occhi divini Tiro d' immensa vampa il cor t' accese : Ed Alcìon ne' talami marini E Calice accogliesti e di serpenti Medusa non ancora avvinta i crini ; ERO A LEANDRO. 301 E Laodice che dorate a' venti "Spandea le chiome e la gentil Celeno Ascesa a fiammeggiar ne' firmamenti; Perchè, Nettuno, se cotante in seno Fiamme accogliesti, sei con me sì fiero €he d' amoroso incendio ardo non meno ? Pace, gran nume ; col tridente altero L' oceano sconvolgi ; in breve chiostra Sdegna far pompa del regale impero. Sorgi colà con tutti i venti in giostra ; Le na\q aggira e co' sonanti e vasti Marosi le gran flotte abbatti e prostra. Vergogna, che dell' acque il Dio contrasti Ad inerme garzou ; palma sì vile D' un fiumicel si disdirebbe a' fasti. . , Vanta Leandro origine gentile ; Ha fra gli avi famosi ei non addita L' Itaco astuto a' tuoi nepoti ostile. Pace, gran nume ; ed ambo a un tempo aita ; Ei nuota; per la stessa onda tranquilla Naviga coir amante la mia vita. 302 KKO A KKANDKO. La lampa al cui chiaror scrivo, scintilla Lieta scoppiando, e d' avvenir felice Porge giocondi auguri alla pupilla. Ecco su' fausti fochi la nutrice Il vino infonde e, — Tre sarem domani, — Un colmo nappo tracannando, dice. Mio ben, fa' che siam tre, fa' che lontani Mai più non siam : così t' arrida Amore, E r onda al nuoto Citerea ti spiani. Perchè, perchè se t' ho rinchiuso in core, Così di rado al tuo fianco mi assido V Torna, torna a tue tende, o disertore. Anch' io vorrei talor scender dal lido ; Poi m' arresta il pensier che alle donzelle È questo mar più die a' garzoni infido. Frisso il varcava e l' incoipabil Elle ; Frisso fu salvo ; e solo alla nemica Onda die nome l' incoipabil Elle. Forse paventi che la lena antica /VI ritorno ti manchi e non risponda Dell' iterato nuoto alla fatica ? Eli (3 A LEANDRO. 303 Io lasciando la mia, tu la tua sponda Corriamo ad incontrarne a mezza strada, E baciamoci in volto a fior dell' onda ; Poscia ciascuno alla natia contrada Faccia ritorno. Picciol premio è certo; Ma partito è miglior starsene a bada? Oh, faccia Iddio che finalmente aperto Sia l'amor nostro a tutti, e si rimova L' invido vel che 1' ha finor coperto ! Già vergogna ed amor fan mala prova Congiunti in un: non so qual sceglier deggia; Che se 1' una convien, l'altro ne giova. Perchè Giason non sei che nella reggia Entra appena di Coleo, ed a' suoi lari Colla rapita vergine veleggia? Perchè non sei 1' avventuroso Pari Che viene a Lacedemone e repente. Solca coli' involata Elena i mari ? Che se sovente vieni, anco sovente Tu m' abbandoni e di nuotar non badi, Se per nave tornar non ti si assente 301 i:k(_) a leandro. 0 vincitor de' procellosi guadi, Sfida pur V onde e tuttavia le temi ; Speme e paura avvicendar ti aggradi. Fracassate dal mar van le triremi, Opra di mille artefici ; e tu speri Che le tue braccia piìi possan de' remi ? Quel che tu fai, gì' intrepidi nocchieri Paventano di far : rotto il naviglio, Nuotan sol presso a morte i passaggeri. Ahimè, che la paura io ti consiglio, Folle ! e poscia vorrei che de' miei detti Tu pili forte sfidassi ogni periglio. Lasciami delirar, pur che t' affretti Ed uscendo dal mar l'umido braccio Avidamente all'omero mi getti. Ma quante volte a contemplar mi affaceli Dalla finestra il pian dell'acque immenso Ratto per 1' ossa mi trascorre un ghiaccio. E della scorsa notte anco ripenso Tremante al sogno orribile, che sorta Tosto espiai con lagrime ed incenso. ERO A LEANDRO. 305 Era suir alba : tremolante e smorta Dormicchiava la lampa, allor che vere Le novelle a' mortali il sonno apporta. Semisopita mi lasciai cadere Di mano il fuso e a torbido riposo, La guancia abbandonai sull' origliere. Qui veder mi parca pel mar spumoso Vago delfin far cento giri e cento Mezzo sorto dall' onda e mezzo ascoso. Poi mi parca, che di traverso un vento Impetuoso lo gittasse ai lidi, Ove giacca fra l'alghe avvolto e spento. ' Vera o falsa l' immagine che vidi, Io n'ho paura. Alla venuta aspetta Tranquillo ir mar, né i sogni miei deridi. Se non curi di te, d' Ero diletta Abbi almeno pietà, che intempestiva L' ora estrema a veder non sia costretta. Ma già speranza 1' egro spirto avviva ; Sicuro per la placida bonaccia Tu potrai tosto abbandonar la riva. Zanella. 20 3()6 KUO A LKANDHO. Intanto, tinche dura la minaccia Della gonfia marina, il tuo cordoglio E le dimore men gravi ti faccia Questo eh' Ero ti manda, amico foglio. LA PARTENZA PER L' ESIGLIO. Elegia III del Libro I dei Tristi DELLO Stesso. Quando alla notte orribile Io col pensier ritorno, Che sotto il del romuleo Fu r ultimo mio giorno ; Quando cotante io medito Dolcezze che lasciai, Di subitana lagrima Molli ancor sento i rai. Era il mattin già prossimo ; E per regale editto Io da' confini italici Uscir dovea proscritto. Mente non ebbi e spazio Di apparecchiarmi: immenso Sbalordimento all' anima Moto avea tolto e senso. 308 l'A PARTENZA PBB l' ESIOLIO. Servi e compagno a scegliermi Stordito io non attesi; Oro, difesa all' esule, ' E vesti io non mi presi. Giacqui percosso, attonito, Come percosso e domo Uom giace dalla folgore, Tronco vital, non uomo. Poi che dal cor le nuvole Lo stesso duol rimosse, E vigoria ripresero Deir anima le posse, Sorto, r addio novissimo Volgo a' dolenti amici ; Due furon meco ; ed erano Tanti a' miei dì felici. Alto io piangeva: al trepido Mio seno la consorte In disperato spasimo Stretta piangea più forte. Lungi dal patrio Tevere, Di mia fortuna amara Nelle contrade libiche Vivea la figlia ignara. LA PAETENZA PER l' ESIGLIO. 309 Suonano pianti e gemiti; Gli stessi servi han lutto; Non ha la casa un angolo Che sia di pianto asciutto. Di funeral non tacito Eendea sembianza il loco; Kendea di Troia immagine, Quando fu preda al foco. Le voci omai tacevano De' cani e delle genti ; Ed alto il cocchio Cinzia Reggea pe' firmamenti. Gli occhi levai: sul culmine Il suo splendor battea Del Campidoglio: attigue Io le mie case avea. Numi, sclamai, cui vivere Potei tanti anni appresso: Vette tarpee, che scorgere Più non mi fia concesso ; Dei del superbo Lazio Che abbandonar degg' io, Miti vi piaccia accogliere Dell' esule 1' addio. 310 LA PARTENZA PER l' KSIOIilO. So che lo scudo inutile Torna a guerrier trafitto; Pur voi scemate gli odii Al misero proscritto. Dite al divino Cesare Come demente errai; Dite che fui colpevole, Non scellerato mai. Tutto è a voi noto; il giudice Pur esso non V ignori. Saran, })lacato Cesare, Forse i miei guai minori. Tanto io pregai: più fervida La donna orava, e mozzi L'erano i preghi assidui Da lagrime e singhiozzi. Discinta, supplichevole Si prostra ai Lari, e tocca Del focolar le ceneri Colla tremante bocca; Poi sorge, e di rimprovero Acre i Penati assale, Rimprovero che gP invidi Fati a stornar non vale. LA PARTENZA TKK l' ESIGLIO. 311 E già rompea V indugio La mezzanotte scorsa ; Già volto al lato occiduo Era il timon dell' Orsa. Che far dovea? Di patria Mi rattenea V amore; Ma noverate ed ultime Erano a me quelle ore. Se fretta alcun facevami, Perchè, dicea, mi sproni? Pensa onde vuoi divellermi, Pensa ove andar m' imponi. Oh quante volte fingere Mi piacque un' ora, e dissi : Gl'istanti ancor non giunsero Che alla partenza ho fissi! Tre volte ver la soglia Mossi: tre volte addietro Trassimi : il piede e V animo Tenean lo stesso metro. Addio, mi udian ripetere, Dar mi vedean gli amplessi Ultimi, e tosto riedere A' detti, a' baci istessi. LA PARTENZA PBIl L' ESIQLÌO. Dava a' miei cari i memori Novissimi precetti; Poi gli occhi non sapeano Torsi dai cari aspetti. Perchè, diceva, accelero Tanto il partir? Si noma Il mio confin la Scizia; Questa che lascio è Roma. Viva a me vivo involasi Impareggiabil moglie ; 11 gen'ial ricovero Del padri mi si toglie; Tolti mi sono i teneri Compagni desiati, Pili che Piritoo a Teseo A me d' amor legati. Pria che il destin ne separi, Oh, eh' io vi abbracci ancora. Nobili petti; oh, spendere Possa con voi questa ora! Diceva; e a lor che stavano A capo chin piangendo. Voci alternando e gemiti, L' avide braccia io stendo. LA PARTENZA PEll L ESIGLIO. Mentre favello e lagrimo, Dalla marina sorto, Stella fatai, Lucifero Alto splendea nelF Orto. Mi stacco alfin : nelP impeto Tutte sentir mi sembra Dilacerate fendersi E sanguinar le membra. Allor clamori ed ululi Suonan pegli ampi tetti; Percosse palme suonano, Suonan percossi petti. Stretto mi tien pegli omeri Furente la consorte, E detti e pianti mescola Sulle contese porte. « A me nessun può toglierti; Insieme, insieme andremo. Ella dicea; di un esule I guai partir non temo. Sol non farai di Scizia L' orribile sentiero ; Alla tua nave io carico Aggiungerò leggero. 314 LA PAUTKNZA l'Eli l'eSIGLIO. Te r adirato Cesare Lungi d' Italia invia; Sia la pietà, mio Cesar.*. A pormi teco in via. Cotal tentava: a smoverla Forano i preghi vani; Solo al pensier dell' utile Vinte rendea le mani. Esco. Io parea cadavere D' in sulla soglia tolto, Squallido tutto ed orrido Di sparse chiome il volto. Mi disser poi cir esanime, Vinta d' immenso duolo, Chiusa in mortai caligine Ella cadea sul suolo; Che sorta dal deliquio 1 rabbuffati crini Bruttò d' immonda polvere. Pianse i suoi rei destini ; Pianse il deserto talamo Ed il remoto esigilo, Di madre in guisa che ardere Miri sul ro<^o il fif?lio. LA PARTENZA PER l' E8IGLI0. 315 E che volea, ini dissero, Correr feroce a morte; Né r arrestò che il provvido Pensiero di mia sorte. Viva: e se a' fati infrangere Piacque di nostra vita L' unica tela all' esule Sia liberal di aita. CEFALO E PROCRI. DAL LlBHO in dell' AF{TK D'AmORE DELLO Stesso. Quante un incauto credere Talor sciagure apporti, Di Procri l'infortunio, Sposi, vi renda accorti. Non lungi dalle floride Pendici dell' Inietto Sgorga una fonte e morbido Vi fan r erbette un letto. Bossi e ginestre adombrano Il tacito recesso; Il mirto, il pin vi crescono 11 lauro ed il cipresso. Di un odorato zefiro Agli aliti giocondi Gli erbosi cespi ondeggiano, Susurrano le frondi. CEFALO E PROCRT. 317 Stanza gradita a Cefalo Che, cani e cacciatori Lasciando altrove, assidersi Ivi godea sui fiori. E « Vieni, o mobil Aura, Solea cantar sovente. Ninfa cortese, a molcere Vieni il mio petto ardente. » Del malaccorto Cefalo I detti alcun raccoglie, E li riporta al credulo Orecchio della moglie. Di subito alla misera Irte si fer le chiome Che nome di un' adultera Di Aura le parve il nome; E impallidì qual sogliono A terra impallidite Cader d'autunno al termine Le foglie della vite. Poi come dal delirio La misera si scosse. Stracciò le molli porpore, II petto si percosse. 3] 8 OBKAÌ.O K PROORT. Disciolta il criii sugli omeri, D'indugio intollerante, Già le vie fende ed ulula A guisa di Baccante. Giunta air Imetto, lascia L'ancelle a mezza valle, E dentro al bosco intrepida Varca per ermo calle. Oh qual, donzella improvvida, Era in tuo cor tempesta. Quando sedevi in guardia Nascosa alla foresta! Ansia de' venti al murmurc Gli occhi volgeva attorno; Scovrir in ogni cespite Temeva il proprio scorno. Procri infelice ! or scernere Ella vorrebbe il vero, Or non vorrebbe: fluttua Perplesso il suo pensiero. Il nome, il loco acquistano A' suoi sospetti fede : Quanto paventa il misero Agevolmente crede. TEFALO E PROCRI. Come di un uom vestigio Vide suir erba impresso, Fiero la colse un tremito, Le battè '1 cor più spesso. Ed alto il sol degli arbori L' ombra minor già fea, E spazio eguale il vespero Dair alba dividea. Ecco ritorna Cefalo, Beltà divina, al fonte, Nelle fresche acque a tergere La polverosa fronte. Procri lo mira e palpita: Ei steso suir erbetta. Venite, esclama, o zefiri. Vieni, cortese auretta. L' inganno del vocabolo Procri conobbe appena, Che r ansio core esilara, La faccia rasserena. Sorge; e col petto aprendosi La via fra le conserte Ombre del bosco a Cefalo Sen corre a braccia aperte. 319 320 CEFALO E PBOCBI. Quei d' una fiera il giungere Udir pensando, in fretta Suir arco inconsapevole Incocca la saetta. Che fai? t' arresta, o Cefalo, Vano timor t'assale Che festi? A Procri, o misero, Vibrasti in sen lo strale. « 0 fatai selva! 0 Cefalo, Ella cadendo esclama, Come potesti uccidere La tua fedel che t' ama ? Giovane io muoio; e giovane Morir già non mi pesa. Poi che di donna estrania Più non pavento offesa. Prendi il supremo anelito, Aura temuta invano: Tu le pupille chiudimi, 0 sposo, di tua mano. » Disse: e dal sen lo spirito A poco a poco uscito Tremanti i labbri accolgono Del pallido marito. CKFALO E PROCRI. 321 Ei fra le braccia esanime Sostien r amata sposa, E lava di sue lagrime La piaga sanguinosa Zanella. 21 CARMI SEPOLCRALI D' IGNOTO AUTOKE DAF.i.* Antologia latina del fìcuMANN. A MARCO LUCCEIO FIGLIO DI MARCO. Mentre io piangea la subita partita Del mio nepote, lamentando il frale Fil dalle Parche ordito alla sua vita; E da lento gemea fato mortale Tronco il fior de' suoi giorni, ed un cordoglio Sentìa qual mai non conturbommi eguale, Me desolato, me tradito e spoglio Di ogni gioia gridando, e commovea Co' pianti miei qual è più duro scoglio; Della notte al cader, quando splendea Rugiadoso Lucifero, e sull' orma Dell' alato corsier l' aure fendea. CAUMI SKPOLORALl. 323 Ammantata di luce eterea forma Scendere io vidi dalle stelle. Errore Quel che scorsi non fu d' alma che dorma; Ma con sua voce e naturai colore L' estinto giovanetto mi s' offerse Dell' immago sua solita maggiore. Fulgidi come sole in me converse Gli occhi, e svelando gì' omeri lucenti In questo dire il roseo labbro aperse: « Mio vero genitor, perchè lamenti Che tratto io fossi alle stellate sfere? Divino io son ; né piangere convienti ; Né con supplici voti e con preghiere Affaticar gli Dei ti si consente, . Di cui già sto fra le beate schiere. Non io vedrò la squallida corrente Del Tartaro esecrato, o di Acheronte^ Trapasserò gli stagni, ombra dolente; Non io la nera tua nave, Caronte, Col remo spingerò; ne tema alcuna Avrò della tua bieca orrida fronte; 324 CAKMI SEPOLCUALI. Nò r antico Minosse per la bruna Manderammi a vagar erma campagna, O neir ima a giacer stigia laguna. Sorgi; reca alla madre che non piagna 11 figliuol suo, siccome notte e giorno Filomela del tolto Iti si lagna. Perocché delle mute ombre al soggiorni Mi togliea Vener santa, e mi schiudea Dell' etere stellato il tempio adorno. » Balzo in sul letto: un freddo mi correa .Brividìo per le membra, e una fragranza Come di cielo il chiuso loco empiea Divo nepote, ossia che nella stanza Degli Elisi beata, in fra gli Amori, Intrecci con Adone allegra danza; Sia che in mezzo alle muse inni canori Disciolga air ombra dell' aonie frondi, Gli Dei t' accoglieranno a' primi onori. Bacco sarai se d' ellera circondi Il festevole tirso, ed il crin d' oro Sotto frondoso pampino nascondi; CARMI SEPOLCRALI. 325 Che se i lunghi capei cingi d' alloro, Ed arco e strali all' omero sospendi, Febo sarai nel sempiterno coro. Prendi le vesti fluttiianti. prendi Il berretto de' Frigi ; Ati secondo Di novo ardor già tu Cibelle accendi. Che se stringere il fren t' è più giocondo A spumante corsier, Cìllaro in sella Qual vago sosterrà nobile pondo! Ma sii nume od eroe qual più t' abbella, Salva, oh salva la tua madre diletta, Il f ratei giovanetto e la sorella. Di unguenti invece e di ghirlande accetta Intanto questo don, contro cui move Sue lime indarno il tempo, e la saetta Strugger non può dell' iracondo Giove. 326 (ARMI 8EP0LCUAL1. PKR UN FANCIULLO. Tu che fra i pruni con incerto passo T' apri il sentiero, sosta, o pellegrino. Nò '1 titolo spregiar di questo sasso. Poco più di due lustri il mio destino Viver mi diede; frale e passeggero, Crebbi nudrito come un amorino. Attinsi di Pitagora il pensiero; De' sofi ricercai gP incliti detti ; Svolsi il volume del divino Omero: Ne tedio gl'inamabili precetti D' Euclide mi recar; che mille il core M' allegravano intanto agi e diletti. Ilare, il mio buon padre e mio signore, Questo fatto m' aveva ozio giocondo, Se il niveo fìl non recidean le Suore. CARMI SEPOLCRALI. 327 Or per le valli d'Acheronte al mondo Lontano d^gli spiriti m' avvio Gli astri a veder del Tartaro profondo. Speme e beltà, ricchezze e pompe, addio! Io non son più per voi: ludibrio e scherno Fatevi or d'altri, se vi piace: il mio Seggio è qui fisso; io qui dimoro eterno. 828 CARMI SEPOLCRALI. A NIC E. Questo estremo ricovero e quest' ara A te dedico, o Nice; e ben vorrei Che i tristi offici a me tu fessi, o cara, E miei fossero i tuoi fati sì rei. Inutil sogno! Dalla Parca avara Tolta al tuo fido Ermete ecco tu sei; Ecco tu cadi giovinetta ancora Come fior che già langue ed è V aurora. Ma Cibele di latte il sasso irrori, E lo cinga di sue rose Dione; Versin V Oreadi nuvoli di fiori, E di ligustri intessano corone. Né manchi un pio eh' ogn' ajmo i mesti onori Ti rinnovi; e la sua dolce canzone Sul tumulo, ove dormi ombra quieta. Dal ramo ombroso V usignuol ripeta. CARMI SEPOLCRALI. 329 A PETA Il doloroso fato, che gli stami De' tuoi giovani dì ruppe sì presto, Peta, se nulla vale un prego onesto. Tempo è ben che nud' ombra a te mi chiami. Voglio ancor esser tuo. Torbidi e grami Sono i miei giorni sulla terra, e questo Sol che i miei danni illumina, detesto. Ma tu sotterra pensi a me ? più m' ami ? Mio ben, le labbra al rivo obblivìoso Non accostar di Lete, e la venuta Attendi ognora del fedel tuo sposo. Buia è la via; ma pel solingo orrore Precederammi, e la caligin muta Disperderà colla sua lampa Amore. 380 CARHI SEPOLCRALI. A CI.AIIDIA OMOXKA MooLiK DI Atimkto libkrto di Tiberio Cesark, Tu che senza pensier che ti tormenti, Passo passo ten vai, »li breve posa Siimi cortese o leggi i pochi accenti. OMONEA. Queir io, chiara una volta e gloriosa Fra le donzelle italiche, Omonea, In questa umile tomba or giaccio ascosa. Gentilezza le Grazie, e Citerea M'avea data beltà; Pallade austera Adorna di sue sante arti m' avea. Ne venti volte ancor la primavera Per me fiorìa, che fato invidioso Mi travolgeva nell' eterna sera. Né mi lagno per me: più doloroso Del mio stesso morir m' è di Atimeto L' aito dolor, di quel mio dolce sposo. CARMI SEPOLCRALI. 331 ATIMETO. Se le sorti cangiar fatai divieto Non impedisse, e colla propria morte Altri far salvo si potesse, io lieto Questo avanzo di tempo che la sorte Anco mi deve, per serbarti in vita Gittato avrei, dolcissima consorte. Ora, poiché m'è tolta ogni altra uscita, Fuggendo le vitali aure e gli Dei, Te laggiù seguirò per via spedita. OMONEA. Oh, non voler col lungo pianto i bei Strugger, mio caro, tuoi giorni fiorenti. Né la pace turbar de' sonni miei. Son le lagrime invan, né per lamenti Fassi mite il destin. Fummo: già questi, Questi i termini son fissi a' viventi. Cessa, amor mio. Così non ti funesti Mai più pari sciagura, e sian gradite Le tue segrete suppliche a'celest-. 832 CABMI SEPOLCRALI. E tuoi siano que' di che morte immite Al mio stame vital volle recisi; Vivi a lungo per me: vivi due vite. ATIMETO. D' amaranti, mia donna, e di narcisi L' urna ognor ti fiorisca. Ah, non dovevi Ratta così discendere agli elisi, Se di tante virtù bella splendevi. IN MORTE DI MARCO ANTONIO DALLA-TORRE ELEGIA DI GIROLAMO FRACASTORO AL FRATELLO DELLO STESSO. Benché percosso dall' acerbo fato D' un tanto amico io pur domandi a' numi Qualche conforto al mio misero stato, Perchè di duol perpettio due fiumi Non mi solchino il volto, e tuttoquanto Il cocente dolor non mi consumi; Tuttavia come lo permise il pianto, Che dell'ingegno intorbida la vena, Questo per te tentai flebile canto. Mosso da speme che la mia Camena Ti consolasse, se canori accenti Ponno d' un'alma alleggerir la pena; 33 J IN' MORtte DI MAKCO ANTONIO DALLA-TOURE. E perchè tutto in lagrime e lamenti Non ti sciogliessi, come si discioglie La brina a' pluviali austri tepenti. Grido è diffuso che in crudeli doglie Tu te ne viva pel fratel giocondo Tratto anzi tempo alle funeree soglie; Né più t' allevii degli affanni il pondo Molle sopor ; ma triste a' mattutini Nascenti albori e quando tace il mondo, Irato a' sordi immobili destini, Lui che il cielo ti fea tanto lontano Cercar dolente per tutti i confini; Quale Lampezie lungo 1' Eridàno Ansiosa cercava il suo Fetonte, Se antichissimo canto non è vano, Sette dì non gustò cibo nò fonte; E sette notti d' ogni tregua schiva A dolce sonno non piegò la fronte. E quante volte ansante e semiviva. Che la lena al desio più non risponde, Smorta cadea sulla deserta riva. IN MORTE DI MARCO ANIONIO DALLA-TORRE. 335 Rendetemi il fratel, gridava all' onde, Rendetemi Fetonte, o quante il flutto Ninfe pietose a' miei lamenti asconde. Te pur, te pur, se mai fu giusto il lutto Nella morte d'alcun, .te pure incolse Dolor da non portarne il ciglio asciutto; Dacché morendo il tuo fratel ti tolse Ogni contento, e te senza riparo E tutti quanti i tuoi nel duol travolse. Nel duol ahi! ti travolse il fato amaro Dell'estinto fratel, di clù non era Altri al tuo cor più disiato e caro. Ei di tua fresca gioventìi primiera Fido sostegno, e invidiato onore Di tua magion che per lui sorse altera; Con cui sedendo in candidi d'amore Ragionamenti senz' ambage usavi Tutti gli arcani disvelar del core; Cui proponevi a tutti ; e più de' favi Dolce e più dell' ambrosia da' suoi Labbri facondia distillar giuravi. 336 IN MORTE DI MARCO ANTONIO PALLA-TORRE. 0 tristi troppo ! o sventurati noi ! Schiatta più miseranda in sulla terra Pria non si vide, nò vedrassi poi. Contro noi furibonda arse una guerra, A cui nuir altra in crudeltà fu pari, Ne forse in grembo all' avvenir si serra. Vedemmo scintillar barbari acciari; Barbaro giogo tollerammo ; e parte I dolci abbandonammo aviti lari. Quel che rimase dal furor di morte Tabida lue consunse: il reo flagello Dalle vedove terre anco non parte. Né bastava ; e di Cotta ecco V avello Invita a novi pianti. Ove t' imboli, Preda a cieco malor, Cotta fratello? Cotta diletto, addolorati e soli Perchè lasciarne e dir V ultimo addio Pria che fossero ancor pieni i tuoi soli? Né peranco lenito avea Pobblio Cotanto lutto, e per lo smorto viso Caldo di pianto ci scorreva un rio. IN MORTE DI MARCO ANTONIO DALLA-TORRE. 337 Che tu pur dal vi tal ceppo reciso, Marco, al tuo fido stuol cresci tristezza. Ah, ben fallace è della speme il riso! Che pel fresco vigor di giovanezza. Per r alte opere tue, pel tuo valore L' alma non era al rio pensiero avvezza, Che te caduto dell' età nel fiore Coperto avremmo sotto stranio suolo, Te già muto e de' tuoi sordo al dolore. Ma speravamo che t'ergesse a volo La tua virtude, allor che dell'accento Aureo beassi l'accalcato stuolo. Pari a ruscel che a cento labbra e cento, Dall'aerea disceso alpe natale, Offre lungo il cammin limpido argento. I tuoi gran fatti rammentar che vale E gli alti premi? Come la salute Riconfortò per te l'egro mortale, E come spesso l'anime venute A man di morte rivocasti al giorno Col possente favor dell'arti mute? Zanella. 22 338 IN MORTE DI MARCO ANTONIO DALLA-TORRE. Tu, Ticino, lo narra, e tu che il corno Per r antiche aggirando euganee valli, Brenta, il suol fai di verdi paschi adorno: Voi che, obbliando delle ninfe i balli. Cheti r udiste allor che di natura I divini svelava occulti calli; Ed ora il suo sparir sotto la scura Onda piangete che fra sterpi e dumi Stagnando, al mar discendere non cura. Ma non voi soli o più d' ogni altro, o fin; Al suo pensando non previsto fine Di pianto aveste rugiadosi i lumi. Lui piansero le greche e le latine Ninfe; e Calliope il suo dolor palese Fé su querule corde fiorentine. Ogni foresta lamentar s'intese, Ogni rupe; e di lacrime tributo, Ultimo Scita, il tuo ciglio gli rese. Ma più ne lagrimarono il canuto Benaco e '1 Sarca umìl, che del sepolto Baciano oltrepassando il cener muto; IN MORTE DI MARCO ANTONIO DALLA-TORRE. 339 E più l'Adige stesso, per cui tolto Il venerando frale a suol romito Fia dalla patria in nobil urna accolto, Acciò che lunge dal sepolcro avito E dall' ossa de' Turri, ingloriose Quelle spoglie non copra estranio lito. Allor voi tutte, o Naiadi vezzose, D' Adige figlie, a piene man sovr' esse Nembi versate d' olezzanti rose. Tempo verrà, che di stupore oppresse Fermando il passo, le più tarde genti. Quanto a costui, diranno, il ciel concesse! E gli scritti leggendo e i monumenti Dell' estinto, talun serti votivi A' muti appenderà Mani dormenti. Intanto, o Ninfe, voi che i cento rivi Dal Benaco traete, e tu che Tonde [ Devolvi, 0 Sarca, dagli alpini clivi ; Voi dirupi di Naco, e voi profonde Di Briano vallee, selve cui bruna Ombra ravvolge di perpetue fronde. 340 IN >10RTK 1)1 MAHCO ANTONIO DALLA-TORRK. Recate voi, su via, recate alcuna Gioia al mio Batto, e raddolcite a prova L' orrenda piaga che gU fé fortuna. Pili di Soj&a l'accento a lui non giova E r arte delle lire animatrice Del suo core la via più non ritrova. 0 Batto ! Vj nondimeno V infelice Vate di Tracia, dopoché smarrita E lungamente pianta ebbe Euridice, Nulla trovò che la dolente vita Più gli allegrasse d' imenei già schiva, Che delle Muse e di Sofia V aita. Con lui qualor di Rodope saliva Fra r alte selve, o rade orme imprimea Per la strimonia taciturna riva. Venia compagna la pieria Dea; E perita a sonar V imposto verso Eburnea lira a tergo gli pendea. Misurava col guardo V universo Tutto e, suo fregio, il padiglion celeste Di mille lumi fiammeggiante e terso. IN MORTE DI MARCO ANTONIO DALLA-TORRE. 341 I mari contemplava e le foreste Ampie, i mobili fiumi, il variopinto Bel manto onde le terre aprii riveste; Onde mirando come il mondo avvinto Rotasse a certe leggi, il suo dolore Sentiva a poco a poco in indistinto Diletto tramutarsi e V alto amore D' Euridice tacer. Tanto del mondo Puote la vista giocondare un core! Leva lo sguardo al candido e ritondo Disco lunare; agli astri erranti in giro Tutti intorno al lor sol per proprio pondo. Eterno è quanto cape entro Y empirò ; Ivi siedono i giusti ed han mercedi L' alme che pie di questa vita uscirò. Sotto dell' uomo V infelici sedi Giacciono, della morte atre contrade. Ove alcuna di bene orma non vedi ; Che questi luoghi la gragnuola invade, La neve, il vento, e quanto dall' oscura Region delle nubi in terra cade. 342 IN MORTE DI MARCO ANTONIO DALLA-TORRB. Aggiungi a tanto danno il gel, V arsura E io sciame de' morbi, onde soccorso Pur sempre implora la mortai natura. Noi poi sciogliendo a' desideri il morso Ci crescemmo i dolor; stirpe demente, Che sempre in mal precipita il suo corso. Quindi gli odi e le bieche ire cruente, E mille vie per frode o tracotanza Schiuse air eccidio dell' umana gente. Pur fra cotanti mali una speranza Vien che consoli chi dirizza V ale De' suoi desiri a più sicura stanza. Perocché quando solvesi dal frale Bella di merti un' anima, al superno Regno tantosto giubilando sale E si tranquilla nel soggiorno eterno De' numi e semidei ; là dove aprile D' estate ardor non teme o gel di verno ; Ove tace ogni brama, ove il suo stile Lascia fortuna, ove il dolore ha fine, Ne più volge le sorti un vulgo vile ; IN MORTE DI MARCO ANTONIO DALLA-TORRE. 343 Ma poeti vi regnano che il crine Di casto lauro avvolsero, e guerrieri Che di stragi fur mondi e di rapine; E miti ingegni che da' bei sentieri Mai non uscir del giusto e di Sofìa Meditar ne' giardini incliti veri. In mezzo a' quali assunta or or la pia Alma fraterna per la curva sfera E per r aule celesti il guardo invia, Vagheggiando il mattin che non ha sera E gli ordini de' giusti, e gode un scanno Anch' essa aver tra la beata schiera. Mentre d' intorno a lei l' ombre ristanno Generose de' padri, e 1' occhio intento Dal volto del nepote alzar non sanno. Cui riconoscon tosto al portamento: Ei pur contempla il glorioso seme (( Di sua semenza e di suo nascimento » I suoi ravvisa, e ne distingue insieme I nomi e 1' opre, e sa dir dopo quanti Lustri il fratello veder seco ha speme. 311 IN MORTE DI ::ARC0 ANTONIO DALLA-TORRB. 0 fortunato, che partendo avanti Che (li vecchiaia assaporarsi il fiele, Presso pio raccogliesti i passi erranti! 0 quanti scogli ! o quanto mar crudele, Marco, a tergo lasciasti ! a quanti inganni D' instabil vento ascose hai le tue vele ! Fortunato due volte ! a te gli affanni Noti non furo di una lunga etade E le noie compagne agli ultimi anni ; Ma fra le dolci muse e le beate Arti d' Apollo, placido vedesti Chiudersi il giro delle tue giornate. Vanne, o gloria d' Italia, e de' celesti Al santo coro ti frammischia: assai Di te felice il secolo già festi. Di lassù, finché gli astri avranno rai E scenderanno alla marina i fiumi, Da questa valle sollevarsi udrai Alle sfere il tuo nome e i bei costumi. VERSIONI VARIE. LA ROCCA. Idillio dal greco di Teocrito. 0 dono di Minerva, o rócca amica Delle candide lane, all' operosa Femminea man dolcissima fatica, Lesta vien meco alla città famosa Di Nilèo, dove a Venere sul mare Verdeggia un' ara fra le canne ascosa. Fausti i venti preghi am sì che le care Luci io vegga dell' ospite lontano, Del mio buon Mcia, a cui le grazie avare Non fur di vezzi. Or tu, bel dono, in mano Della sua donna andrai, se di gentili Eburnei fregi non ti cinsi invano. Con lei sedendo filerai virili Paludamenti, e veli alle donzelle Più che la spuma nive'i e sottili. 348 LA RÓCCA. Due volte V anno le canute agnelle Sovra r erbetta deporran le spoglie, Cura di Teagène e dell' ancelle. Veder ben puoi eh' all' oziose soglie Io non ti guido di codarda gente, Ma presso ad una di pudiche voglie Donna d' alti pensier piena la mente ; A te venuta di sì chiara sponda Con ignavi abitar non si consente. Patria t' è quella, che fondò sull' onda Archia Corintio; di Sicilia il cuore, Siracusa d' eroi madre feconda. Or raccolta nel!' inclite dimore D' uom che all' egro mortai moke le pene, Co' farmachi fugando ogni malore. Tu di Mileto abiterai 1' amene Piagge bagnate dall'Ionio, e spero Recherai nova grazia a Teagène. A lei ricorda il buon cantor straniero; E sia talun che nel vederti dica: Picciolo par, ma grande e lusinghiero È sempre il don che vien da mano amiw SOPRA UN SEPOLCRO DI DONNA. dall' Antologia greca. Sosta. La polve di recente è mossa; E dal marmoreo cippo una ghirlanda Pende di fiori, che dall' aure scossa Improvvise fragranze intorno manda. Appar scolpita lapida. Chi T ossa Venne a depor nella solinga landa? Leggi la scritta: a te dalF ima fossa Donna, o pio passaggier, si raccomanda. Antemia io sono: in Guido ebbi i natali Sposa d' Eufrone di gemella prole Lieto lo fei ; ma fur doglie mortali. Un de' bambini a lui lasciai, bastone Di sua vecchiaia : ove non luce il sole L' altro vien meco a ricordarmi Eufrone. DORA. Idillio tradotto dall' inglese di Alfredo Tennyson. Nella magion del fittaiuolo Aliano Dora e Guglielmo i dì traean: 1' un figlio, L' altra nepote. A' giovanetti il guardo Rivolgea spesso Aliano, ed in suo core Spesso dicea : « li vo' veder congiunti. » Del zio Dorina il desiderio intese E Guglielmo guatava; ma Guglielmo, Perchè sempre a' suoi fianchi in quella casa L' avea veduta, non badava a Dora. Or venne il dì, che in una stanza Aliano Trasse Guglielmo e disse : « Io troppo tardi, 0 figlio, m' ammogliai : pur non intendo Chiudere gli occhi al sol, se pria non veggo Sui ginocchi scherzarmi un nipotino; E già nel core designai gli sposi. DORA. 35] Or puoi, Guglielmo, quind' innanzi a Dora Guardar come a tua sposa; è casalinga Ed oltre gli anni suoi buona massaia. D' un mio fratello è nata. Aspre parole Ebbi un giorno con lui, né più veduti Da quel giorno ci slam. Dorme sepolto In paese stranier : ma per 1' amore Che in altro tempo a lui m' unia, raccolsi La sua bambina e V allevai. Di sposo Dalle, 0 figlio, la man: son anni ed anni Che il giocondo pensier di queste nozze Notte e dì non mi lascia. » In secchi accenti Guglielmo rispondea : « Non fia, non fia Che Dora abbia il mio cor: per questo sole No, Dora, non avrammi. » E V uomo antico Di rossa bile s' accendea : le mani Si storse e disse: «non la vuoi? fanciullo Replicarmi così ? Ma ne' miei tempi La parola del padre era comando, E tal oggi sarà. Pensa, Guglielmo, Pensa al tuo fatto : t' abbandono un mese A maturo consiglio, e la risposta Sia quale io la dimando; o per quel Dio Che ne guarda ambedue, prendi il fardello Né mostrarti più mai sulla mia porta. » Obliqui detti mormorò: si morse Il garzone le labbra e ritirossi. 352 DORA. Più Dora ei rimirava, e men sentiva Di mai poterla amar: aspri i suoi modi Con lei; ma Dora mansiietamente Lo sopportava. Allor prima che volto Si fosse il mese, le paterne soglie Abbandonò Guglielmo e per mercede L' altrui podere a coltivar si pose ; E fosse per amore o per dispetto Dopo breve stagion sposò Maria, D' un campagnuol la poveretta figlia. Sonava la campana annunziatrice Delle nozze novelle. A sé chiamava Aliano la nipote e le dicea: «T'amo, fanciulla mia, di core io t'amo; Ma se un accento cangerai con lui Che si disse mio figlio; o se parola Colla donna farai che sua consorte ■ Dirassi questo dì, chiusa per sempre T' è questa casa. Il mio volere è legge. » Dora era dolce e d' obbedir promise ; Ma pensava in suo cor : « Come ciò fia ? Lunga stagione non andrà che il zio' Rabbonirassi e muterà pensiero. » E passavano i giorni. Intanto un figlio A Guglielmo nascea. Più dura allora DORA. 853 fovertade V assalse. Addolorato Ei dì per dì passava e ripassava Muto dinanzi la paterna porta, E r iracondo Allan non lo vedea. Ma Dora di nascosto accumulava Il poco che poteva e di nascosto L' inviava al mescimi che non sapea Di qual mano venisse; infin che fiera Una febbre lo colse ed in poca ora Lo condusse a morir, quando ne' campi I lavori fervean della raccolta. Dora allor venne a visitar Maria. Maria sedea col pargoletto in grembo E lo guardava e lagrimava : in piedi Insospettita- si levò, mirando Dora venir che avvicinossi e disse: '' Finor la voglia rispettai del zio, Ed io peccai, perchè della sventura, Che Guglielmo cogliea, fui cagion prima. Ma per V amor di lui che più non vive, E di te che a sua donna egli prescelse. Per r amor di quest' orfano innocente, A te vengo, o Maria. Sono cinque anni, Come tu sai, che più superba mèsse Non si vide ne' campi. Or mi permetti Ch'io prenda il tuo bambini gli occhi del zio Yo' si scontrino in lui, quando discende Zanklla. 23 l»()liA. A veder la campagna. Allor che esulta Gioioso in core della larga mèsse, Lo sguardo gli cadrà sul fanciuUetto, E per r amor di lui che più non vive, Vorrà prenderlo in braccio e benedirlo. E Dora prese il fanciuUetto e venne Per ascoso sentier presso i frumenti, E sovra un monticel non seminato, Ove crescean papaveri, si assise. Per altra parte il fittaiuol discese Alla campagna, né di Dora seppe; Poiché servo non fu che dirgli osasse Oh' era là col bambin che 1' attendea. Dora volle levarsi e girne a lui. Ma le ginocchia le tremaro. Intanto I falciator falciavano: cadea II sole in occidente e tenebrosa La notte discendea sulla campagna. Venne il domani. Alzossi un' altra volta E preso in braccio il pargolo, si assise Sul monticel. De' camperecci fiori. Che lì presso sorgean, compose un serto. Onde del bimbo il cappellin recinse, Perchè agli occhi del zio più bel sembrasse. Allor calava il fittaiuol ne' campi DORA. ;j;.5 E vedea la nipote: abbandonava I mietitori e s'accostava ad essa E le diceva : '' Dove fosti ieri ? E che fanciullo è quello ? E qui che fai V " Abbassò Dora gli occhi e gli rispose k mezza voce : " È di Gugliehno il figlio. '' " E non lo dissi, prorompeva Aliano, E non lo dissi eh' io '1 vietava ? " E Dora Seguiva: " Fa' di me quel che ti piace. Ma piglia il fanciulletto : e per 1' amore Di lui che non è più, lo benedici." Riprese Allan : "" Ben hai la trama ordita Con quella donna là ! De' miei doveri Ammaestrarmi tu? La mia parola. Ben ricordi, era legge, e tu 1' osavi Disobbedir. Ebben: resti il bambino. Perchè lo vo': ma tu da questa parte Prendi la via, né più venirmi innanzi." Così dicendo, il fanciulletto prese Che strillava atterrito e si schermia Come sapeva. GÌ' intrecciati fiori Cadder di Dora a' pie, che le man giunse E si partì: del pargoletto il grido Lontan pe' campi dileguarsi intese. Chinò la testa al seno; e la memoria Del dì che fanciulletta in quella casa Venne e di quanto vi passò, la strinse. 356 DORA. Si assise sul terreo: la faccia ascose, E lagrimò segretamente. Intanto I falciator falciavano: cadea II sole in occidente, e tenebrosa Jja notte discendea sulla campagna. Al casolare di Maria si volse Allor Dora e suH' uscio appresentossi. Vide Maria che il suo bambin non era Con Dora, onde a lodar si mosse Iddio, Che consolava i vedovi suoi giorni. E Dora disse : "" Il zio tolse il bambino ; Ma concedi. Maria, che teco io viva E lavori con te: dice che mai. Mai pili non osi presentarmi a lui. " E Maria rispondeva : " Ah, non sia vero Ch' io ti debba aggravar della mia croce : E penso ancora non sia ben eh' egli abbia Il bambin, che crescendo alla sua scola Un cattivello si farà, ne cuore Avrà per la sua madre. Andianne a lui. Io pregheroUo che il bambin mi renda E te ripigli ; e se ti scaccia, allora Povere amiche noi vivremo insieme, E per quel poveretto orfanel cara Avremo ogni fatica, in fin che cresca E la mercè ne renda. '' Allor le donne Si baciarono in fronte, e fuori uscendo DORA. 357 sa. Era levato Il saliscendi della porta : il guardo P^ntro mandar furtivo, e sui ginocchi Vider dell' avo il pargoletto assiso. Il vecchio lo cingea delle sue braccia E lo blandia premendogli le guance Come uno che V amasse : il vezzosetto Si contorceva e di ghermir tentava Il bel ciondolo d'oro che pendea Dall' oriol d' Aliano, e contro al foco Riscintillava. Entrar le donne; e quando Il fanciullin vide la madre, un grido Mise e le braccia le distese. A terra Lo pose Aliano, e Maria prese a dire : ■' Padre, se usar di tal nome mi lece. Limosina per me mai non ti chiesi. Né per Guglielmo o pel bambin che vedi: Per Dora io vengo: in casa la riprendi, Ch' ella ben t' ama. 0 mio signore ! Il giorno Che Guglielmo moria, pacificato Moria con tutti. Io nel chiedeva; ed ei Mi ripetea che benediva al giorno Che la mano mi die: tale gli fui Moglie amorosa. Ma dicea che un fallo Commesso avea, d' attraversarsi a' cenni Del suo padre e signor. Che Dio, dicea. 358 DORA. Lo benedica, né provar gli lasci 11 millesmo de' guai, per cui passaro or infelici miei giorni. Alla parete Poi si rivolse e giacque. 0 sventurata Derelitta eh' io son ! Ma tu, signore, Non negar eh' io riprenda il mio fanciullo, Perchè duro di cor teco non cresca E odiar del padre la memoria impari. Dora ripiglia, e vada il rimanente. Come sinora alla fortuna piacque. " Così Maria diceva, e Dora il volto Dietro le spalle di Maria celava. Alto silenzio possedea la stanza, Allorché dal suo seggio all'improvviso Prorompea singhiozzando il vecchio Aliano : ■ Io son r iniquo ; è mia la colpa : il reo Son io, che merto ogni castigo: io sono Che uccisi il poveretto, e pur 1' amava Guglielmo, il figliuol mio ! Che Dio perdoni Al mio grande peccato; e voi, mie figlie Datemi un bacio. " Allor le donne al collo S' avvinghiaron del vecchio e lo baciaro Intenerite e ribaciaro. Il core Dilaniato da' rimorsi avea, E r assalia con rinascente fiamma L'antico amore. Singhiozzò gran tempo DORA. 359 Sul picciolo nipote, e nel pensiero Non vedea che Guglielmo. Or questi quattro Vissero insieme da quel giorno; e quando L' anno fu volto, di novelle nozze Lieto fu '1 core di Maria ; ma Dora Nubile si serbò sino alla tomba. AD UNA ALLODOLA. dall' INGLEi^E DI PeRCY BySSHE Sh^LF.EY. Salute a te, salute, Volatrice gentil, che dai profondi Cieli di note argute Non meditati effondi Torrenti di che l'alto etere inondi! Diritta al ciel tu sali. Come di foco nuvoletta, e pendi; Rotata indi sulP ali L'. immenso azzurro fendi Ed a* tuoi regni nuovamente ascendi. Nel tremolo baleno. Che da ponente di dorata lista Solca alle nubi il seno, Tu navighi non vista, Navighi d' altri cieli alla conquista. AD UNA ALLODOLA. 361 Del dì, che langue e manca, Nelle diffuse porpore ravvolta. Come una stella imbianca Ne' rai del dì sepolta, Nessun ti vede e ciaschedun ti ascolta. I luminosi dardi Va celando la stella a poco a poco. Finche si toglie a' guardi ; Ma se del sol nel foco Nessun la vede, ognun ne addita il loco. Pieni son terra e cielo De' tuoi concenti ; qual se d' importuna Nube squarciando il velo, Di subito la bruna Immensità d' argento empia la luna. Chi sei? chi ti somiglia? Dolci così dell' iride i colori Non piovono alle ciglia, Come de' tuoi canori Gorgheggi 1' armonia piove sui cori. Sei come vate ascoso Neil' etereo splendor de' suoi pensieri, Che d' inno armonioso Lusinga e prigionieri Fassi i mortali al suo dolor stranieri; Al» rVA Ali f)l>OLA. Come regal donzella In alta torre, che cantando affida Alla segreta cella, Prima che il duol V uccida, L' occulta fiamma che nel!' alma annida; Come un insetto d' oro, Che sotto l'ombra di conserte fronde Tesse sottil lavoro. Che fra le rubiconde Urne de' fiori e le rugiade asconde ; Come solinga rosa. Che il profumato calice discioglie All' aura ingiuriosa, Che coir odor le foglie Ad una ad una nel passar le toglie. Di frondi tremolio, D' erbe bisbiglio, venticel d' aprile, Di piogge mormorio. Quanto è quaggiìi gentile. Quanto dolce ad udir passa il tuo stile. Dinne, leggiadro spirto, Quale dolcezza i tuoi concenti ispira? Fra colmi nappi e mirto Sì dolce non sospira Notturno accordo d' amorosa lira. AD UNA ALLODOLA. 3t)3 Cori d' allegro imene, 0 di trionfo olimpiche canzoni Accanto alle serene Note, che disprigioni Dall' ardente tuo cor, son freddi suoni. A che nascose fonti L'onda beata attingi? a che pianure? A che marine o monti? Dolci d' amor le cure Sempre ti son? non provi odi e paure? Al tuo gioir commista Esser doglia non può : de' suoi languori Te noia non attrista; Canti i tuoi lieti amori, Ma dell' amor gli occulti tedi ignori. Sia che tu vegli o dorma, Scerner la morte a te non si disdice In più benigna forma, Cile a noi sognar non lice ; 0 sì vispa saresti e sì felice? Trepidi innanzi, indietro Noi volgiam le pupille: al desco accanto Veggiam starci il feretro; E se lo bagna il pianto, Esce più dolce dalle labbra il canto. 364 AD UNA ALLODOLA. Pur se dolore e noia Fossero all' uman core affetti ignoti, Dalla serena gioia In cui t'immergi e nuoti, Panni che noi saremmo ancor remoti. Quanti natura ed arte Han lieti suoni : quanti fior gì' ingegni Poser nell'auree carte, Tu vinci, tu che sdegni La terra ed ardui voli al vate insegni. Prestami i tuoi concenti! Tali in divino rapimento immerso Diffonderò torrenti Di suon, che 1' universo Udrammi, come io muto odo il tuo verso. I SEPOLCRI DI UNA FAMIGLIA. dall' inglese di Felicia Hemans. Nella stéssa magion crescean fratelli, Crescean sorriso de' concordi lari ; Or divisi nel mondo hanno gli avelli, Da montagne divisi e lunghi mari. La stessa madre sulle dolci cune China vegliava i facili riposi; Comuni i giochi; il desco avean comune Dove, dove n' andar gli avventurosi ? Un nelle piagge dell'estrema aurora In nero gorgo abbandonò la vita; Ove di cedri una foresta odora Il mesto cippo l'Indiano addita. Negli abissi del mar giace il secondo, Dove giaccion le perle; il piìi diletto Era di lor; ma del garzon giocondo Niun lagrimerà sul basso letto. 366 I SEPOLCRI DI DNA FAMIGLIA. Sotto lina zolla del suo sangue rossa, Ove il sol di Castiglia i grappi annera, Il terzo dorme; in non compianta fosst Dorme ravvolto nella sua bandiera. Rimanea del giardino ultima rosa, Beltà pallida e frale, una fanciulla; Sotto r italo ciel morta riposa. Ove han gì' inni e le rose eterna culla. Così gli ultimi alberghi hanno divisi Quei che giocar sotto lo stesso noce, E sullo stesso grembo a sera assisi A Dio levar la semplicetta voce; Quei che ruzzando le paterne sale Già di sollazzo empierono e di festa. 0 amore, amor! guai se caduche liai Tale Se di là dell'occaso altro non resta! LIBRI E FIORI. DELLA Stessa. Vieni ! Di luce e d' armonia comporti Un regno io vo' : qui son volumi e fiori ; Vieni ! all' angusta tua prigion vo' tòrti Tòrti a' febbrili della vita ardori. De' canti il fiore è chiuso in queste carte, Come nel fiore la fragranza è chiusa; A' coronati principi dell' arte In dì remoto li dettò la musa. Contro i fati e 1' età pugna il pensiero, Che dal lezzo mondano si sublima Vincitor della morte, e per sentiero Arduo si volge a luminosa cima. Dell' uom V amor : la brama irrequieta Che romper tenta all' infinito il velo, Qui dentro accolse il trepido poeta Che aperto vide ne' suoi sogni il cielo. ;ì(>8 Lima K Moui. Splendide larve, deità, portenti Son qui dentro spiranti; affanni e glorie; Ed al voler che domina gli eventi. Sacri gli allori e 1' ultime vittorie. Odi r inno celeste : odi 1' accento, Come nota di cigni, armonioso Che, lenito dell' anima il tormento, Nel sen t' addorme d' un divin riposo. T' annoia il canto ? alla natura gli occhi Rivolgi, amico, ove in solingo piano Crescon fiori ed arbusti ancor non tocchi Dal soffio ardente del lavoro umano. Questi fiori rimira ! o quale incenso Mandan le colorate urne all' Eterno ! D' essi natura fé catena al senso, Perchè riedan gli erranti al sen materno. Essi fur colti al cupo rezzo estivo, Lungo i muschi di tacita vallea, Ove la luna tremola sul rivo Gareggia di candor colla ninfea. Essi fur colti sovra campo aprico, Ove il sole è perenne e la verzura.... E tu, diletto, ti dirai mendico Con due regni al tuo piede, arte e natura? I MORTI D'INGHILTERRA. DELLA Stessa. Signori deir Oceano, Ove dormono i vostri incliti morti? Ov' è la tomba olimpica Che la gloria poneva a' vostri forti ? Stranier, gli abissi naviga; Spandi le vele tutte quante a' venti ; Foresta o mar non mormora, Che non ricovri d'Alb'ion gli spenti. Allato alle piramidi, Là di Siene sull'adusta landa Atroce il sol rifolgora, E r immobile palma ombre non manda ; Sull'arsa landa assiduo Incomba il sol di mezzo a' firmamenti ; D' un pieno giorno al termine Là d' Albion riposano gli spenti. Zanella. 24 370 F MORTI \y INOIIILTKUKA. Romoreggiando infuria L' uragano dell' Indo in sulla foce ; De' tigri nelle tenebre Esterrefatto il Gange ode la voce; Tigri, uragani infurino; Più suon non v' ha che i Mani altrui sgomenti Tocco il sereno vespero, Là d' Albion riposano gli spenti. I tuoi deserti, America, Precipitando la fiumana assorda ; Acute frecce incoccano Truci i Selvaggi sulla tesa corda ; Fischino i dardi: allaghino L' immenso piano i turgidi torrenti ; Fornito il giorno e 1' opera. Là d' Albion riposano gli spenti. De' Pirenei sul vertice Nevi e foreste il turbine tormenta ; ; Divelti rami e stipiti, Come foglie di rosa, in alto avventa ; Le nevi aggiri il turbine, Getti schiantate le foreste a' venti ; In Roncisvalle vinsero ; Là d' Albion riposano gli spenti. I MORTI -d' INGHILTERRA. 371 A' marinari orribile Nel gelato Oceàn scende ia sera, Quando il naviglio accerchiano Torpidi i ghiacci e fitto il ciel si annera; Premano ghiacci e tenebre ; Già con bandiera ed albero i valenti La loro via fornirono ; Anche là d' Albion dormon gli spenti. Giganti dell' Oceano, Industri eroi, guerrieri e marinari, I picchi la piramide, La vostra fossa son le sabbie e i mari. Stranier, gli abissi naviga; Spandi le vele tutte quante a' venti ; Foresta o mar non mormora. Che non. ricovri d' Albion gli spenti. PROPERZIA ROSSI. DFAAA Stessa. PropPTzia Rossi, famosa scultrice di Bologna, valente del pari nella poesia 0 nella musica, mori di un amore infelice. Un quadro di Ducis la rap- presenta nell'atto di mostrare il suo ultimo lavoro, un bassorilievo di Arianna, a un cavaliere romano, oggetto del suo amore, che lo guarda con indifferenza. I. Ultimo dono il cielo mi consenta D' arte e d' amor : eh' io pochi segni imprima Su questo sasso, e morirò contenta. Dell' arder che gì' inerti anni mi lima, Rimanga un' orma sulla terra, un' orma ; Ed io nata a toccar era la cima ! Del bello ancor la luminosa forma Doni vita perenne al mio lavoro; Poi r egro spirto il voi raccolga e dorma. Per te, per te, che forsennata adoro, Per te che di deridermi non cessi, Questo all' arte domando ultimo alloro. FROPEKZIA ROSSI. 373 Oh, se nel marmo imprigionar potessi Quest' anima che fugge ; e tutti quanti Fosser nelF opra i miei tormenti espressi, Accorati silenzi, occulti pianti, Torbide notti e più torbide aurore, Delusi sogni e solitari canti! A lei che presto vittima d' amore Vedrà sopravvenirsi il dì mortale. Forse pentito volgeresti il core ; E piangeresti rimembvando quale Teco ella fu, sì timida e modesta. Sì pia, sì dolce, mentre tu, sleale.... Destati, invitto spirito, ti desta ; Tronca la querimonia intempestiva, E la man non tremante all' ovra appresta. La fredda pietra del mio foco avviva; Paga morrò. Quel perfido rimiri Qual d' ingegno tesor con me periva ; Vegga la spenta fiaccola e sospiri. 374 PROPEUZIA ROSSI. IL Ei viene, ei vien ! Con procellosa piena L' estro antico risorge : all' ansia mente, Che r affanno prostrò, torna la lena. Dall' agitato spirito repente Con giocondo tumulto si disserra Di gloriose immagini un torrente, Che m'incalzan superbe e mi dan guerra La mano affaticando e l'intelletto. No tutta, tutta io non andrò sotterra. Cresce il vago lavor. Del mio concetto Lo scabro masso già s' informa e toglie Atto e sembianza di vivente aspetto, Simile a rosa che le fresche foglie Dischiude ad una ad una, in fin che splende Nell'aperta beltà delle sue spoglie. Cresce il lavoro : docile si arrende A' miei colpi il macigno. 0 somigliante A me nelle tue dur^: aspre vicende. PROPEKZIA ROSSI. 375 0 tradita Arianna, il mio sembiante, Il disperato mio sguardo ti presto : In te mi riconosca il crudo amante. Il mio dolor gli parli manifesto Nel tuo muto dolor : la mia procella Nel tuo volto contempli e nel tuo gesto. 0 consunta d'amor, greca donzella, Deserta un dì sovra remota arena. Tu del mal non ignara a lui favella Dell' indomito ardor che in ogni vena Con sue torbide vampe mi penetra E pria del tempo al mio fine mi mena. Almen potessi infondere alla pietra La virtù d' una nota ! ed il concento Dolce come sospir d' eolia cetra, 0 carezzevol alito di vento Fra le foglie d'un mirto illanguidito, Quel fero impietosisse al mio tormento. Per tanti guai, da cui già porto attrito L' egro mio frale : pel vorace affanno, Onde ho sull' alba il mio cammin fornito. o70 PRCPERZIA BOSSI. Ristoro altro non chiedo a tanto danno Che una lagrima sua. Fatte già polve Entro r urna queste ossa esulteranno, Che vero amor per morte non si solve. HI. Come sei bella, femminil sembianza Dal marmo uscente ! Ma V altera iaea, Che brilla in me, la tua bellezza avanza. Di che vaghi miracoli io potea li mio secolo ornar, se la fortuna A' miei poveri giorni era men rea! Ma non arrise il cielo alla mia cuna; Quando piìi dolce il grido è di natura, Solinga io vissi e senza speme alcuna. Un core, un core, in cui versar secura L' ansia segreta e la segreta stilla Dal duol spremuta a' dì della sventura ; PROPERZIA ROSSI. 377 E mia stella nel buio, una pupilla In me fisa ridente; una parola Che tornasse 1' afflitta alma tranquilla ; Tutto, a me tutto il ciel negava. Or sola Sulla terra m' aggiro : al core affranto Ogni più salda illus'ion s' invola. Così di gioia e di trionfo un canto Che agitò V aure altissimo, talvolta Odi in lungo morir eco di pianto Nel buio sen di sotterranea volta. IV. Pur del mio genio un lampo in questo sasso ;' Vedran le genti: innanzi ad Arianna ' L'età venture arresteranno il passo. 0 fama! e la tua larva ancor m'inganna? Di rugiade ha desio V arida fronda, Cerca uno schermo la tremante canna : PROPERZIA R088I. La vite, perchè prosperi feconda, Ha bisogno dell' olmo, ed io bisogno Ho d' un core che m' ami e mi risponda. Fama, splendido cencio, inutil sogno! Un core, un core, o fama, a conquistarmi • Tu non valesti, e pure ancor ti agogno. 0 lauri ! o cetra ! o miei spiranti marmi !, L' antica fiamma ridestarsi io sento : Tornano le armonie, tornano i carmi. Dunque V incendio non peranco è spento V Dunque nuove vedrò nascer ghirlande Sovra il cammin che un' altra volta io tento? Mai più, mai più ! Puro fiammeggia e spande D' oro torrenti su' tuoi lidi il sole, Italia, nella polve ancor si grande ; Dolce come di rose e di viole Profumo in una queta alba di maggio Suona il concento delle tue parole ; Ma dal vivo tuo ciel, dal tuo linguaggio Dolcezza alcuna al cor più non mi torna ; • Tace ogni inno per me, tace ogni raggio. PROPERZTA ROSSI. 379 Meco immortale il mio dolor soggiorna; I miei passi accompagna e tinge in nero Quanto natura più di riso adorna. Già tremenda mi suona entro il pensiero Un' assidua parola : il tuo sospiro Donna, non vai che ad irritar l'altero. 0 tu mio divo spasimo e deliro, Tu che di ghiaccio e di disdegno armato Crudel gioco ti fai del mio martiro, Addio ! Se almen mi concedesse il fato Pria che l'aura del dì mi sia rapita, Posarti in seno il capo affaticato, E disciogliermi in pianto e non udita Pur sul collo morirti, al tutto orrendo II tenor non direi della mia vita. L' ala di morte or desiosa attendo ; E pur quanto sereni avrei veduti I miei giorni passar teco vivendo ! Qy ambo in festa: ora tranquilli e muti Mirando il cielo, ne piacer gustando Maggior che d' esser ivi ambo seduti ; 380 FROPEiiZIA R< .SSl. Or (li lontana musica ascoltando Gioconde consonanze, che la brezza Interrompe del vespro a quando a quando Or colla mente a dotte inchieste avvezza In franto simulacro o tela antica L' orma spiando d' immortai bellezza ; Dolce al paro il riposo e la fatica Stata ne fora; né sventure ed onte Già t' attendean, perch' io ti fossi amica ; Ma del contento inebbriata al fonte Ampia mèsse di lauri avrei raccolta Sol per farne ghirlanda alla tua fronte. 0 sogni, sogni! Or dell'amor m' è tolt; Anco la speme : questo sol m' avanza Che la mia fama non sarà sepolta. Soave, come tenlie fragranza Che intorno arida rosa ancor si aggira, Fia che resti di me la ricordanza. Soave come V aura che sospira Nel crin di melanconico cipresso, 0 fra le corde di spezzata lira. PROPERZIA BOSSI. 381 Resterà questo marmo, e viva in esso L' immortale mia fiamma. I cittadini Commossi in cor gli passeranno appresso ; E chi sa non tu stesso il guardo inchini Vinto a un pensier che V anima ti grava, E traendo un sospir dica a' vicini : Quanto colei, che lo scolpì, mi amava ! L' ORA DELLA MORTE. DELLA Stessa. Una stagion la fronde Ha per cader; una stagione il fiore Per appassir: le stelle un'ora asconde, Ma tue, morte infedel, tutte son Tore. Il giorno alla fatica, Sacra è la sera al conversare giocondo; Notte è de' sogni e del riposo amica; Ma tutte r ore tu passeggi il mondo. Ha r ora sua la mensa, Ora di riso e di feste voi canto; Ora poi vien che 1' uom sospira e pensa ; Ma tuo, rapace, il giorno è tutto quanto. Ride il garzon securo; Ride secura sul mattin la rosa ; Ma tu già non attendi il fior maturo Per istender la falce ruinosa. L OEA DELLA MORTE. 883 Una stagion la fronde Ha per cader : una stagione il fiore Per appassir : le stelle un' ora asconde ; Ma tue, morte infedel tutte son V ore. Quando vien men la luna, Quando dal mar la rondin fa ritorno, Quando imbionda la spica e V uva imbruna, Noi conosciam; tu sola non Hai giorno. Verrai co' dolci fiati Che carezzano il capo alle viole? Verrai quando la neve alta è ne' prati ? I tuoi sentieri non conosce il sole. Ove più spuma il mare. Ove ferve di danze il chiuso albergo, In campo aperto, accanto al focolare Invisibil dell' uom pendi sul tergo. Sei coir amico afflitto Sovra la coltre dell' amico estinto ; Sei dove ardono i brandi, e nel conflitto Ebbra non scerni il vincitor dal vinto. Una stagion la fronde Ha per cader; una stagione il fiore Per appassir : le stelle un' ora asconde ; Ma tue, morte infedel, tutte son 1' ore. PREGHIERA. DELLA Stessa. Padre celeste! Al fiorellin, che allieta L' erma salita di dirupo alpino, Odor non solo, ma virtù segreta Hai data che rincora il pellegrino. Mentre ei dispera dj toccar la meta, Mirando nel bel calice vicino La tua presenza, le paure acqueta E sereno riprende il suo cammino. Signor, pari virtù dona al mio canto! Al poverel che più si affligge e lagna Parli di te che volgi in riso il pianto; Porga sostegno alla fralezza umana; E come il fiorellin della montagna Fragranza avrà fugge voi sì, non vana. LA CADUTA DELLE FOGLIE. DAI, FRANCESE DI MlLLEVOYE. L' aura autunnal dell' ingiallito ammanto, Tolto alle querce, avea coperto il suolo; Nuda la selva traluceva: il canto Sopito era nel petto all'usignuolo. Triste e già moribondo in sull' aurora Di sua giornata, infermo giovinetto Lento moveva, una fiata ancora. Pel bosco a' suoi fiorenti anni diletto. "" Addio, foresta ! Io già mancar mi sento ; Nel tuo destino il mio destin m'è chiaro; In ogni foglia che dispicca il vento, Del mio morir non dubbi segni imparo. 0 dell' arte di Coo divi^io alunno ! Tu sospirando mei dicevi; gialle Vedrai farsi le foglie un altro autunno; Ma non vedrai più rinverdir la valle. Zanella. 25 386 LA CADUTA DELLE FOGLIE. Già morte di sue nere ombre ti fascia; Più del pallido autunno, o giovinetto, Hai tu pallido il viso; e cruda ambascia Con sordo dente ti consuma il petto. Cadran questi tuoi vaghi anni felici Appassiti cadran, pria che appassite Sien r erbette ne' prati e le pendici Veggan di fronde povera la vite. Io muoio, io muoio! Col suo freddo fiato Aura letal m'è corsa in ogni vena; Ecco il decembre io mi ritrovo allato. Quando alle spalle aveva il maggio appena. Frale arboscello, in un mattin distrutto, Non avea che verzura e qualche fiore; Ecco cascano i fior; né dolce frutto Fia che rallegri il ramoscel che muore. Cadi, cadi frequente, amica foglia; Cela il tristo sentiero; al duol materno Cela la fossa, dove nuda spoglia Dormirò col dì novo il sonno eterno. Ma se sul vespro scompagnata e mesta A cercarmi verrà la fida amante. Tu pia col lieve tuo romor mi desta, E felice il mio spirito abbia un istante. " LA CADUTA DELLE FOGLIE. 387 Disse e sparì; più non farà ritorno. L' ultima foglia che spiccava il vento, Segnò del garzoncel l'ultimo giorno; E gli poser nel bosco il monumento. Ma la fanciulla a piangere sulF urna Mai non uscì: sol con vagante passo Della valle il pastor la taciturna Notte turbò del solitario sasso. LA VITA SOLITARIA. DALLO SPAGNUOLO DI T.UIS DE LeON. Avventurosa vita Di lui che fugge popolar tumulto, E segue per romita Semita il passo occulto De' savi, a cui non fece il mondo insulto ! Non gli conturba il petto Sete di fama o di regal tesoro ; Né guarda invido il tetto Che di diaspro e d' oro Edificava V ingegnoso Moro. Splendori non agogna, Né dietro inani titoli si affanna ; Abborre la menzogna Che di bei veli appanna Quel che la nuda verità condanna. LA VITA SOLITARIA. 389 Maggiore il mio contento Forse sarà, se son mostrato a dito ? Se dietro a simil vento Correndo io vo smarrito, Di mortali punture il cor ferito ? 0 monte ! o acque ! o fido Villereccio soggiorno a me sì caro ! Ecco afferrando il lido, Scampato al flutto amaro Alle vostre dolci ombre ecco io riparo. Placidi sonni io bramo, Bramo liberi dì senza un pensiero ; Cenno veder non amo Risibilmente austero Di chi fan gli avi o le licchezze altero. Mi sveglino air aurora Col non appreso canto gli augelletti ; Non r ansia, che divora Ambiziosi petti Dall' altrui ciglio a pendere costretti. Meco vivendo io voglio Goder de' beni che mi die natura ; Vo' libero d' orgoglio E d' amorosa cura Chiudere in pace mia giornata oscura. 390 LA VITA SOLITARIA. Del monte in sulla falda Un orticel piantato ho di mia mano, Che quando aprii riscalda, È tutto in fior, non vano Argomento di frutta al pio villano. Cupida che si accresca Tanta beltà, dalla petrosa vetta Precipita una fresca Onda, che alla soggetta Piaggia romoreggiando il passo affretta ; E poi tra pianta e pianta Torcendo il corso, la solinga riva Di bei fioretti ammanta, E le vermene avviva Chinate e smorte dall'arsura estiva. L'antelucana brezza Pregna d'odori aleggia in sul pendio E gli arbori carezza Con blando mormorio. Che di pompe e di scettri infonde obblio. Quei che la vita affida A fragile vascel, l'oro contenti. Non io, non io le grida Udrò dell' ansie genti, Quando orribili in mar pugnano i venti. LA VITA SOLITARIA. 391 La combattuta antenna Stride : subita notte il giorno asconde ; Il nocchier smorto accenna Alleggerir le sponde, E r accolto tesor si getta alF onde. D' un desco poveretto 10 son contento, che la pace infiori Né attossichi il sospetto ; Sian gli alabastri e gli ori Di chi non teme d' Africo i furori. E mentre irrequiete Sen van le genti dalla patria in bando Pinte dall'acre sete 0 d' oro 0 di comando. Sdraiato all'ombra io poserò cantando; Sdraiato all' ombra, avvolto D' ellera i crini e d' apollinea fronda, Ad ascoltar rivolto 11 suon della gioconda Lira che intemerati estri seconda. MARTINO. DAL SICIIJANO DI GIOVANNI MeLI. L' uomo che vaneggiando esce di via, Scosso dal collo l'amoroso freno Della saggia natura, Perde il polo di vista e va smarrito ; E quanto più da quella si dilunga Tanto perduto più si trova e sente. Quando i folli pensieri Gli dan tregua per poco e il van desio. Richiamarsi colà donde partio. Per qualche tempo illusìon gioconde A lui saran gli splendidi palagi Della città, le pompe, il lusso e gli agi ; Ma poi cresciuti in core Sente gli affetti nequitosi e questi Crescer sente col crescere degli anni. Della sua mente già fatti tiranni. MARTINO. 393 D' acute punte allor tratìtto invoca La natura, ma indarno ; Gli abiti rei V han stretto di catene Che invan s' affanna a sciogliere ; e frattanto Per illuder sé stesso Di libero e giulivo si dà vanto. Pure di tempo in tempo : o quando ride La bella primavera pe' fioriti Lussureggianti prati : o quando autunno Leva in sui campi il capo incoronato Di poma e d' uva che contrasta all' oro Il biondo colorito, L' uomo della città con sua gran pena Si move e si trascina Seco recando a' campi la catena. Son io, son io (così dicea Martino NegP istanti d' un lucido intervallo) Lo snaturato figlio. Che un istinto segreto, ultimo avanzo Della materna eredità, sospinge Alla tenera madre, al pie traendo La servile catena Del vanitoso fasto E deir ambizì'on non mai satolla Che di spine m' ingombrano il cammino. Madre, quanto a' tuoi sguardi io son meschino ! 394 MARTINO. « Trovo fra questi aratri, Fra questi di verzura Immensi anfiteatri La madre mia natura, Che con aperte braccia A sé mi alletta e chiama, E pinta sulla faccia Mi mostra la sua brama : Che con benigno piglio A me si accosta e dice : Tutto ti diedi, o figlio. Per renderti felice ; Un cor pe' godimenti ; Ove virtù verace Agli onorati stenti Sposa diletto e pace. Legge ci trovi impressa Che d' ogni legge è fiore. Scolpita da me stessa : Ama e raccogli amore. Legge che il core accresce, Allarga il tuo pensiero, Che ti confonde e mesce All' universo intero. MARTINO. Senza essa sulla terra Stranier tu vivi e solo, Sempre cogli altri in guerra, 0 abbandonato o in duolo. La mente e l' intelletto T' ho dato, onde comprenda Quello esser giusto e retto Che al comun bene intenda. I sensi fu mia cura Largirti, che gradita Che vegeta e sicura Ti rendano la vita. L' occhio, perchè ti sveli Meravigliosa scena, L' ordin che terre e cieli Costantemente affrena. L' orecchio novo incanto Ti schiude all' alma ancora : Dell' usignuolo il pianto Di voluttà la irrora. Fra quegli alpestri orrori Il passer solitario Intenerisce i cori Col dolce accento e vario. 395 396 MARTINO. I flauti armoniosi De' vispi pastorelli Fan eco a' graziosi Gorgheggi degli augelli. Le nari pur consola Tributo peregrino D'odor che Paura invola Ai fiori del giardino. Di frutti in abbondanza La mensa ti copersi, Di tinte, di fragranza E di sapor diversi. Vieni, diletto, vieni. Ascolta i miei richiami; Vien tra' boschetti ameni, Siedi fra' verdi rami. Meco in questo ermo lido Regna la pace, e regna Amor che farsi il nido Alle colombe insegna. La fedeltà d' attorno Qui trovomi ne' cani Vigili notte e giorno, Amici e guardiani. MAKTINO. 397 Son mia superba reggia Questi sublimi monti : La maestà passaggia Sulle petrose fronti. Quale beltà s' aduna, Quanta grandezza in essi! Umana possa alcuna Non è che vi si appressi. Osserva come sorgono Di sopra le foreste, E tra le nubi sporgono Le trarupate creste! Quante in que'gran burrati In que' cespugli e grotte Di rettili e d' alati Erran viventi frotte! L'aquile in ciel sospese Tesson con ala immota Intorno alle scoscese Rocce l'aerea rota. Felci e vitalbe intorno, Eli ere a gran festoni Sono i tappeti, onde orno Le altere mie magioni. MARTINO. Mira (la quella cima Come un perenne fiume Maestoso si adima L' onde mutando in scliiume! Giù per occulte scale, Di questi monti al fondo, Trovi le vaste sale Ove i tesori ascondo. Quanto 1' umano ingegno Mette ne' primi onori, Fra creta e sabbia io tegno, Lucenti gemme ed ori. I rosei graniti, Le agate, gli ametisti A scabre selci uniti. Al fango son commisti. Delle mie grotte sono Reconditi pilastri, Son basi del mio trono. Porfidi ed alabastri. Vedi come io dispregio Tesor sì vano! E vui Lo avrete in tanto pregio Da occidervi per lui? MARTINO. Ma lascia le caverne, Esci air aperto, e godi Le mie bellezze esterne Diffuse in vari modi. 0 quante specie, o quante Varietà d' aspetto Presentano le piante Al mio veder perfetto! Quante famiglie intere Vivon d' insetti in loro, Che in maggio a schiere a schiere Volan suir ali d' oro ! La vite che si piega Debole in basso sito, Vedi come si lega Al pioppo per marito ! Del tronco non fecondo Questi in compenso, i figli Ne adotta e porta il pondo De' grappoli vermigli. L'olivo che vetusto Pugnò co' venti e stette. Dal fracassato fusto Germe novel rimette. 399 4C0 MARTINO. Piramidi fastose Son larici e cipressi; L'età del mondo ascose Leggo scolpite in essi. Il grato mormorio Dell' acqua che là scorre Dice all'erbette: addio, 10 parto, che vi occorre? Volete nutrimento? Verso di me stendete Le barbe e in un momento 11 nutrimento avrete. In ricompensa al rivo L' albero i rami stende, E dall' ardore estivo Coir ombra lo difende. Oh i corrisposti affetti! Oh i ben locati offici! Inanimati oggetti Fra lor son come amici. Né credere che 1' onde Sien sole ; alla fontana Galleggia e mi risponde Col gracidar la rana. MARTINO. Tinti d' argento il tergo Guizzano in fondo all' acque I pesci, a cui 1' albergo Laggiù segnar mi piacque. Le pecchie industriose Rimira tra que' fiori Che alle cellette ascose Tornan co' dolci umori. Se il mansueto regno Intender ne sapessi Vergogna avresti e sdegno De' tuoi superbi eccessi. Ma le mie schiere alate Del sol seguendo il raggio Cangian le sedi amate Com' è r ottobre o il maggio. Presentan le stagioni Le specie lor distinte A torme ed a squadroni Di penne vario-pinte. Sue nunzie e messaggere La primavera manda Le rondin elio leggiere Scorrono d' ogni banda. Zanella. 26 401 402 MARTINO. Poi giunge accompagnata Da quaglie e da stornelli E d' una smisurata Folla di vari augelli. Io tutti li confido Agli arboscelli, ai prati, A fabbricarsi il nido, Nutrirsi i dolci nati. Molti co' novi eredi, Quando più ferve 1' anno, Di pili benigne sedi In cerca se ne vanno. D' autunno a' lieti giorni Di lodolette abbondo ; Garrule merle e storni Entro i vigneti ascondo. E quando V anno inchina Ho r oca e la beccaccia. Che presso alla marina Scendon di cibo in traccia. Né compagnia mi manca Di armenti e greggi; e questa No, non mi opprime e stanca, Ma pure gioie appresta. MARTINO. 40: Mi opprime e stanca oh quanto Il cittadin tumulto, Del poverello il pianto, Del ricco altier l' insulto. Frodi, avanie, raggiri, Disordini e scompigli.... 0 stolidi 0 deliri Miei tralignati figli ! » Cosi favella di Martino al core L' ingeniia natura. E la ragione Glie della verità la voce ascolta Santa ed util la trova, Gran diletto ne prova e già la segue. Ma le perverse ambiziose usanze Che dagli anni primieri Soggiogata r avean, a' bei pensieri Oppongon vane idee, vane sembianze, Che ricopron di tenebre la mente. Così Martino che veduto avea Un lampo di saggezza, si ritorna Macchina come pria, A cui l'abito solo imprime il moto. E come nave in tempestoso mare Senza vele e piloto, ai folli affetti •104 . MAUTINO. Che lungi lo trabalzano dal porto, Rinian ludibrio V infelice ; e segue A far, non punto accorto Delle interne battaglie e degli affanni. Quanto fatto egli avea da' suoi primi anni Fine. INDICE. A Fedele Lampertico Pag. v Poesie Originali. Milton e Galileo 1 Ad un amico abile suonatore di pianoforte, nel novembre 1848. 39 Psiche 43 Per un amico parroco 48 Possagno 51 Voci scerete 56 Le ore della notte 58 Per la morte di Daniele Manin, avvenuta in Parigi il 22 set- tembre 1857, e passata in silenzio da' giornali austriaci. C3 A Dante Alighieri - 66 Due vite • . . . 70 A Fedele Lampertico 73 A mia madre 80 Il lavoro 84 La vigilia delle nozze. Pel matrimonio Porto-Prina di Venezia. 89 Ad un ruscello 93 Egoismo e carità 9i L'amore materno. Alla contessa Olimpia Colleoni-Lamper- tico di Vicenza 96 Ad un'antica immagine della Madonna 99 Sopra una conchiglia fossile nel mio studio 102 Alla contessa Giuseppina Lampertico- Valmarana di Vicenza, nel suo giorno onomastico, 19 marzo 1860 107 406 INDICE. Alla stessa nel suo giorno onomastico, 19 marzo 18&1 . Piig La veglia Ili Nelle nozze della contessa Lucia Cittadella di Padova, col conte Giulio Giusti di Verona Il poeta : Amoro immortale 1/ adolescente 11 taglio dell'Istmo di Suez La religione materna Timossena Nelle nozze di un amico dottore Il sonno Sotto un ritratto Orfani ontrambo! Per nozze Le nuove Generazioni. Alla signora Angela Lampertico . . L' alcione I genitori alla sposa. Per nozze Natura e scienza Nelle nozze Porto-Piovene di Vicenza, a nome delle cognate Lucheschi, Reali, Calbo-Crotta, nate Porto A Teresa Barrera-Fogazzaro di Vicenza, esule colla famiglia dal 1859, nel suo giorno onomastico, in Oria sul Lago di Lugano, 15 ottobre 1861 Venezia a Daniele Manin, nel 1866 A Cammino Cavour, nel 1867 L' industria. Ad Alessandro Rossi Membro del Giurì inter- nazionale all'Esposizione di Parigi 1867 183 A Lodovico Pasini Senatore del Regno Alla memoria di Guglielmo Toaldi Professore nel Ginnasio- Liceo di Vicenza 194 Versioni Bibliche. II Cantico di Debora 199 Lamento di Davide in morte di Saule e di Gionata .... 207 La donna forte , 210 La preghiera di Giuditta 2H Il Cantico di Giuditta 219 Ricordi di Tobia 225 La divina Provvidenza 228 INDICE. 407 Versioni da Poeti Latini. ' nozze di Tetide e Peleo di Caio Valerio Catullo. Pag. 235 l'ioponimento. Carme Vili dello stesso 260 Congedo. Carme XI dello stesso 263 Promessa. Carme XXXXV dello stesso 265 Il sogno. Elegia IV del Libro III, di Albio Tibullo 268 Saffo a Faone. Eroide di Publio Ovidio Nasone 27o Ero a Leandro. Eroide dello stesso 292 La partenza per l'esiglio. Elegia III del libro I dei Tristi dello stesso 307 Cefalo e Procri, dal Libro III dell'Arte d'Amore dello stesso. 316 Carmi sepolcrali d'ignoto autore, dall'Antologia latina del Biirmann. A Marco Lucceio figlio di Marco 322 Per un fanciullo 326 A Nice 328 A Peta 329 A Claudia Omonea moglie di Atimeto, di Tiberio Cesare 330 In morte di Marco Antonio Dalia-Torre, Elegia di Girolamo Fracastoro al fratello dello stesso 333 Versioni Varie. L?. Rócca, idillio dal greco, di Teocrito 347 Sopra un sepolcro di donna, dall'Antologia greca 349 Dora, idillio tradotto dall'inglese di Alfredo Tennyson. . . 350 Ad una Allodola, dall'inglese di Pere}- Bysshe Shelley . . 360 I sepolcri di una famiglia, dall'inglese di Felicia Hemans. 365 Libri e fiori, della stessa 367 I morti d'Inghilterra, della stessa 369 Properzia Rossi, della stessa 372 L' ora della morte*, della stessa 382 Preghiera, della stessa 384 La caduta delle foglie, dal francese di Millevoye 385 La vita solitaria, dallo spagnuolo di Luis de Leon 388 Martino, dal siciliano di Giovanni Meli 392 y>«c JgllMDING 5ECT. ShH 1 0 1970 PLEASE DO NOT REMOVE CARDS OR SLIPS FROM THIS POCKET UNIVERSITY OF TORONTO LIBRARY r PQ Zanella, Giacomo umu Versi di Giacomo Zanella zyikYt 1868 V r^^ !i; ; li .::'iUÌ i; ) BwWiWiHiHV